In questo periodo di prova

La mediazione della Chiesa

Michelangelo Buonarroti, «Geremia» (1512)
04 aprile 2020

In questo tempo di particolare prova, l’uomo, che vive la durezza di un inaspettato flagello (covid-19) che inarrestabile sembra continuare a riscuotere vittime non solo in termini di morte fisica e soprattutto spirituale, non può esimersi da un interrogativo esistenziale: dov’è Dio? È la domanda di chi è paralizzato dalla paura di una morte così brutale, repentina e solitaria, a cui spesso si tenta di sfuggire anestetizzando il pensiero, ipotizzando il complotto, per esorcizzare questo senso di impotenza. Anche la comunità cristiana in tutte le sue componenti non può sottrarsi a questa domanda, né può consolarsi con qualche tentativo maldestro di un’attività che finisce per essere più di intrattenimento che di ricerca della presenza di Dio in mezzo al suo popolo sofferente. A questo proposito l’unica parola illuminante è quella della Scrittura e in particolare quella di Geremia. Tralasciando la complessità delle vicende personali e storiche del profeta, possiamo notare sin da subito quanto la sua esperienza sia vicina a quella di ciascuno di noi.

Egli ha vissuto la distruzione di Gerusalemme e l’esilio, tanto che è morto esule dopo il 586 avanti Cristo in Egitto: tutto questo in lui e nel suo popolo ha generato un senso di smarrimento, di abbandono, di terrore. Il popolo scelto da Dio ha perduto il suo sovrano, la sua terra, il suo tempio. Tre elementi fondamentali per l’identità di Israele: il sovrano rappresentava la guida da parte di Dio attraverso il suo servo Davide e i suoi discendenti; la terra, in particolare la città santa, eredità data da Dio al suo popolo; il tempio, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Noi oggi sperimentiamo qualcosa di simile: l’impotenza di chi ci governa, poiché seppur con sforzi immani e scelte tattiche sembra non poterci sottrarre da un tempo cospicuo di limitazioni e sacrifici; l’inaccessibilità a quei luoghi che da sempre hanno caratterizzato la nostra vita ordinaria, i nostri quartieri, i posti di lavoro, i parchi; tutti quei luoghi cui sono legati tanti tasselli della nostra vita ora sono deserti e silenziosi, mentre viviamo in “esilio” nelle nostre abitazioni. Infine, il tempio: nonostante le nostre chiese siano aperte per brevi periodi per qualche preghiera alla chetichella, rimangono vuote, senza popolo, e i sacerdoti restano soli, senza poter benedire, assolvere, comunicare, accogliere.

Ecco il tempo del nostro esilio. Geremia nel capitolo 14 del suo libro, all’interno di un dialogo con Adonai, il Signore, attraverso immagini di carestia e guerra, parla della distruzione di Gerusalemme, e nel fare questo tocca il tema su cui voglio soffermarmi in questa riflessione. «Anche il profeta e il sacerdote vagano per il paese, ma non comprendono» (Geremia, 14, 18). Nella spiegazione del versetto si parla anzitutto di due figure emblematiche: il sacerdote e il profeta. Essi in una situazione di destabilizzazione grande come l’assedio e la distruzione di Gerusalemme, con tutto ciò che da un punto di vista dell’identità sociale, antropologica e teologica comporta, sembrano essere in uno stato di agitazione, reso con questo verbo che ha a che fare con il “vagare”, “andare avanti e dietro”, “muoversi senza coordinate, senza orientamento”, tipico di chi è nel panico perché incapace di tenere gli eventi sotto controllo. Non solo, questo atteggiamento esteriore è manifestazione di una condizione interiore ancora più complessa: «Ma non comprendono». Questo significa che il vagare è sintomatico di un’incapacità di leggere, di decodificare la complessità della realtà e conseguentemente dell’incapacità di porvi rimedio; potremmo dire con termini moderni che non hanno capacità di problem solving, sono in una condizione di stallo, di panico. È davvero forte e difficile ascoltare questa parola, guardare questo quadro sconcertante, perché non si tratta di due uomini qualunque, ma di un profeta e un sacerdote, ossia due figure di mediazione fondamentali per il popolo, sia nella guida, nell’indicare la meta verso cui andare, sia nella manifestazione della volontà di Dio.

La difficoltà del momento sembra far calare il sipario su di una realtà sconcertante: coloro ai quali ci si dovrebbe rivolgere in ultima istanza come fonti di sapienza, come strumenti della consultazione della Sapienza, che è Dio, vagano perché non hanno soluzioni, non comprendono quello che accade. Geremia evidenzia l’inefficacia di queste figure che non hanno la minima consapevolezza della realtà presente. Sembra di rileggere, forse anche con qualche forzatura, se si vuole, la nostra esperienza odierna. In questo momento di grande afflizione per la pandemia che ci ammorba, come Chiesa sembra che abbiamo fallito. Allora dobbiamo chiederci, se c’è: dov’è il nostro fallimento? Procedendo con ordine, anzitutto va riconosciuto che nel momento di prova che stiamo vivendo riecheggiano le parole di Geremia: «E il popolo cui essi hanno profetizzato sarà gettato nelle piazze di Gerusalemme a causa della fame e della spada e non ci sarà chi li seppellisca essi, le loro mogli, i loro figli e le loro figlie» (14, 16). Perciò precisiamo che la riflessione che desideriamo offrire verte su di un piano più teologico e antropologico che sociale. È per questo motivo che il possibile nostro fallimento non si gioca su tenere aperte o chiuse le chiese, ma sulla comprensione della nostra figura mediatrice, sulla nostra capacità di comprendere la realtà e riconoscere in essa la presenza di Dio in mezzo all’umanità. Sia nel passo di Geremia trattato, che nella situazione che stiamo vivendo, il sacerdote e il profeta sono visti come coloro che trafficano, vendono a buon mercato soluzioni immediate, palliativi, ed è in questa visione che la loro azione porta allo Sheol, alla tomba, perché non tiene minimamente in conto Dio. C’è un problema di approccio, perché il popolo si riferisce a loro, come può accadere agli uomini di Chiesa, oggi, come a dispensatori di verità preconfezionate, di risposte rassicuranti, riducendo tutto all’offerta di servizi. Il covid-19 oggi sta facendo cadere il sipario su di una Chiesa ridotta a erogatrice di servizi, seppur positivi come le opere sociali, più che mediatrice dell’incontro tra Dio e l’umanità. Per noi, Chiesa, questa situazione, seppur nella tragicità connaturata che la caratterizza, può diventare strumento di purificazione, tempo di riflessione in cui interrogarci su che cosa ne abbiamo fatto di Dio? O, per dirla con san Paolo VI: Chiesa che dici di te stessa? Non possiamo essere come il profeta e il sacerdote che vagano senza una meta, che ricorrono a mezzi seppur curiosi per intrattenere i credenti, senza vivere la nostra vocazione profetica e sacerdotale, sottraendoci cioè al compito insostituibile di essere coloro che nella loro vita hanno sperimentato l’incontro tra Dio e l’uomo.

È illuminante quanto dice Benedetta Rossi a proposito della mediazione profetica, descrivendo il profeta come «colui che nella sua vita ha fatto spazio a Dio e all’uomo, affinché essi (tutti gli uomini) possano trovare in lui un luogo di comunione e riconciliazione» (L’intercessione nel tempo della fine. Studio dell’intercessione profetica nel libro di Geremia, Pontificio istituto biblico, 2013, pagina 376). Rischiamo di fallire il nostro compito se insistiamo ad affrontare la realtà con risposte generiche applicabili a molteplici situazioni, o se continuiamo a offrire servizi sociali al territorio senza svelarne il senso con una esplicita, per quanto discreta, proposta della Parola. La nostra vocazione, la nostra mediazione sta nell’offrire all’umanità l’incontro con Dio, ma solo dopo averlo sperimentato noi per primi. Soltanto ritornando all’origine della nostra vocazione potremo metterci in ascolto della voce di Dio, fermarci, e non vagare, leggere la realtà alla luce della Parola e decodificarla. In questa condizione non saremo più abbarbicati alle nostre strutture, non ci sentiremo derubati della nostra corazza, perché saremo liberi di perseguire l’obiettivo della nostra missione. In altre parole: anche le chiese chiuse non ci faranno paura, perché non saranno le strutture a impedirci di essere noi stessi luoghi dell’incontro e della riconciliazione con Dio.

In questo tempo di mutazione antropologica — esasperata da una condizione di crisi in cui si è «smarrita la funzione orientativa dei grandi ideali della modernità» e il nostro tempo «scorre privo di bussole certe al di fuori dei binari solidi che le grandi narrazioni ideologiche del mondo [cattolicesimo, socialismo, comunismo] e le sue istituzioni disciplinari [Stato, Chiesa, Esercito] assicuravano» (Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, 2014, pagina 66) — la nostra sfida sta nella mediazione che sapremo offrire della paternità di Dio. Tale mediazione non ha più i presupposti e di conseguenza i connotati dell’impeccabilità, dell’infallibilità — ovviamente non faccio riferimento ai dogmi o agli insegnamenti di dottrina, fede e morale, ma all’approccio nell’essere ponti tra l’umano e il divino — tuttavia, guardando all’esperienza di Geremia, si avvicina sempre più all’atteggiamento di chi si pone accanto a chi cerca la verità, cammina con lui, orientandolo alla Verità, Gesù Cristo. In questa disposizione, anche di fronte allo scandalo dell’insensatezza, alla sofferenza dell’innocente, che viviamo ogni giorno, che sembra resistere a ogni decifrazione, siamo chiamati «come fecero eroicamente alcuni religiosi del convento della Mercy, devastato dalla grande pestilenza di Marsiglia, a essere colui che resta!» (ibidem, pagine 42-43).

di Raimondo Leone