Tra metafisica del virus e dimensione antropologica

La libertà come cura

Pieter Bruegel «Trionfo della morte» (1562)
03 aprile 2020

Qualche anno fa Sergio Givone scrisse una Metafisica della peste. L’epidemia veniva presentata come momento di confronto con la condizione umana: perché siamo al mondo, se dobbiamo morire? «Una catastrofica, immotivata e noncurante malattia che appare e scompare senza senso alcuno» ci costringe improvvisamente a questa domanda. «Una malattia che uccide, ma che può far di peggio, lasciando le sue vittime “solo” vive, nude e private di qualunque parvenza di civile umanità. Perché anche l’umanità può rivelarsi una maschera». La malattia non pone l’essere umano solamente di fronte alla morte. È più crudele: pone di fronte alla vita. Ci crediamo nobili una specie superiore, il culmine del creato, ma siamo semplici corpi. Se non abbiamo mangiato, non possiamo pensare. È un mero agglomerato di atomi a costituirci: magari complesso, ma senza scopo preciso e, probabilmente, senza senso.

La dinamica politica per cui il potere cerca di dominare e controllare anche la sfera della “nuda vita” biologica degli esseri umani è da anni al centro della riflessione di Giorgio Agamben. In un intervento del 26 febbraio sul «Manifesto», egli ha parlato di «invenzione di un’epidemia» ed «emergenza immotivata» con la «quale introdurre uno “stato di eccezione”, ossia gravi limitazioni alla libertà». Agamben ha poi ripreso queste considerazioni criticando l’idea del contagio e riconducendola a quella dell’untore: supporre che ognuno sia potenzialmente un “portatore sano” da isolare conduce ad azzerare i rapporti umani. Criticato in modo un po’ scomposto da molti, tra cui Paolo Flores D’Arcais, Agamben è tornato sulle sue considerazioni, rispondendo anche ad una intervista su «Le Monde» il 24 marzo ed esprimendo una preoccupazione: il dopo. Che società lasceranno le attuali limitazioni alla libertà? «Non credo — ha scritto ulteriormente il 27 marzo — che sarà possibile tornare a vivere come prima».

Obiezioni più sottili gli sono state mosse allora da un altro filosofo molto noto, Jean-Luc Nancy, allievo di Jacques Derrida e continuatore in Francia della tradizione del postmodernismo, di Deleuze e di Guattari. Lo “spirito forte” della migliore tradizione europea, libertaria e refrattaria al potere sarebbe la voce che parla in Agamben. Ma la morte che il virus porta con sé — secondo il filosofo francese — è innegabile e ci riconduce necessariamente al fatto della nostra fragilità umana. In un’epoca in cui tutte le risposte che vanno al di là dell’umano (colpa, destino, provvidenza) non sono più credibili, il virus è troppo umano. Ci dice brutalmente chi siamo, e ci sbatte in faccia la nostra condizione mortale. Non a caso, virus ha la stessa etimologia di vis, ossia forza, e di violenza. Si tratta di temi a cui Nancy, che ha subìto un trapianto di cuore, è evidentemente sensibile.

Ricordandoci la nostra debolezza, il virus ci dice che siamo strutturalmente cagionevoli. Lo stato di eccezione svela un tratto normale dell’esistenza: l’esposizione al malessere. Ci pone quindi la domanda sulla vita sana. Cosa è salutare? Ovviamente, per l’essere umano, una vita sana è inevitabilmente una vita libera. Ma la libertà, a sua volta, si orienta solo rispetto alla salute, alla vita piena e significativa. Perciò la forma della libertà, nella condizione precaria dell’esistenza, può consistere solamente nell’avere cura. Dalla nascita alla morte, la vita è sempre bisognosa di cura. Ogni vita è bisognosa di cura. Avere cura ha un senso contemporaneamente passivo e attivo, significa ricevere e dare. Riguarda immediatamente sé e gli altri, proprio perché la debolezza è una condizione comune. Libertà è dunque assunzione di questa condizione; e rispetto della fragilità di tutti. Liberticida (=omicida della libertà) è chi trascura.

Se lo capiamo oggi, nell’emergenza, saremo capaci di costruire una società migliore domani. Lo stato di eccezione attuale in cui si sacrifica qualcosa di individuale per un bene comune più grande può orientarci per la normalità futura. Se riusciamo, nell’emergenza, a comprendere la libertà come cura, saremo forse finalmente in grado di dare le risposte che tutti sentiamo di volere — ma che assurdamente sembrano impossibili da ottenere — a domande decisive: o è forse liberticida contenere i danni ambientali? Sono liberticide le tasse per servizi irrinunciabili come la scuola o la sanità? È liberticida frenare l’avidità e l’opulenza a favore di chi non ha nulla? Limitare la propria libertà, oggi, per la salvezza di chi è fragile, significa porre un confine all’individualismo e all’egoismo. Indica la direzione per superare lo sfruttamento indiscriminato della natura, degli animali e degli esseri umani.

Accettare una regola di contenimento è — o quantomeno può essere — il contrario di un passaggio verso una società autoritaria e repressiva: può essere invece un passo di contestazione di quel totalitarismo della nostra epoca che è la società del consumo. Un passo che permette di affrontare alcune urgenze e alcune priorità raggiungibili solo collettivamente. Possiamo riscoprire nuovamente che parlare di comunità non implica necessariamente coercizione sul singolo. Un confine posto oggi all’individuo, per compassione verso i fragili, è un seme per una società della solidarietà e della cura.

di Francesco Valerio Tommasi