Le vicende di un’epidemia nel Duecento raccontate nella «Cronica» di Salimbene da Parma

La gallina e l’antidoto

Giovanni Lomi, «Aia con galline»
15 aprile 2020

Stiamo vivendo giorni tragici, ancor più perché in Occidente abbiamo conosciuto lunghi decenni di prosperità e d’assenza di guerra, potendo beneficiare di cure e strutture mediche che in passato non si avevano e, purtroppo, molte altre zone del mondo non hanno ancora oggi. Siamo impreparati, perciò, quando dobbiamo prendere atto, in modo drammatico, della nostra fragilità.

Per troppi secoli carestie ed epidemie sono invece andate a braccetto, falciando con inesorabile efficacia larghi strati della popolazione: quando santa Caterina nacque, nel 1347, secondo la Cronaca di Agnolo di Tura a Siena vivevano circa trentamila uomini; dopo la grande peste che si abbatté sulla città tra il maggio e l’agosto dell’anno successivo, ne erano rimasti solo diecimila. Allora s’invocava Dio e si chiedeva per questo l’intercessione della Vergine e dei santi; oggi, oltre a questo, si spera nella scienza, perché trovi un rimedio. Tuttavia, pure nell’Evo medio si ricorreva alla scienza, spesso più avanzata di quanto comunemente oggi si creda. Da Giacomo da Vitry — un prelato brabantino — che nel secondo decennio del Duecento si trovava nel Regno latino di Gerusalemme, poiché nel 1216 era stato nominato da Innocenzo III vescovo di San Giovanni d’Acri, veniamo infatti a sapere che a quel tempo gli arabi avevano già scoperto il modo di avere pulcini senza la cova naturale, mettendo le uova «in certi forni».

Mi soffermo su una notizia che traggo dalla Cronica di Salimbene da Parma, nato nel 1221 e morto intorno al 1288. Entrato tra i frati minori nel 1238, Salimbene non era certo un uomo riprovevole, ma neppure un modello di virtù, loquace com’era, a tratti linguacciuto e persino impertinente. La sua Cronica assume a tratti l’andamento di un disastroso bollettino medico, con notizie di epidemie che falciano a più non posso uomini e animali, ribadendo così quel legame di reciprocità che troppo spesso dimentichiamo: perché se è vero che tante epidemie traevano (e tuttora possono trarre) origine dagli animali, era vero pure che la morte degli animali lasciava presagire quella di molte persone che da loro ricavavano il necessario per vivere.

Narra appunto Salimbene che nel 1286, in molte città del nord Italia, si registrò una grave mortalità di galline, tanto che «nella città di Cremona a una sola donna ne morirono in un breve spazio di tempo quarantotto». Ciò fece sì che una sola gallina finisse per vendersi a «cinque denari piccoli». Niente di nuovo sotto il sole: scarsità del prodotto, rincaro dei prezzi, con le solite operazioni di sciacallaggio (si pensi all’attuale situazione delle mascherine). Emblematica, in proposito, la testimonianza di un altro cronista, del secolo precedente a quello in cui visse Salimbene, Sigeberto di Gembloux; questi, nel dare notizia di una grave carestia occorsa nelle Fiandre nella prima metà del XII secolo, racconta un episodio di grave speculazione avvenuto a Bruges nel 1126: «I mercanti del Mezzogiorno – narra il cronista — portarono con una nave una quantità considerevole di sementi. A questa notizia un cavaliere, Lamberto di Straet, fratello del prevosto di Saint-Donatien, e suo figlio acquistarono per poco tutte queste sementi. I loro granai si riempirono di sementi di ogni genere, che tuttavia furono messe in vendita ad un prezzo così alto che i poveri non poterono acquistarne».

Torniamo però a Salimbene e alla moria di galline nel 1286: com’è facile comprendere, la situazione era particolarmente difficile per la popolazione, anche perché alla perdita degli animali andava assommata quella delle uova, con tutto ciò che ne comportava! Il parmense ci fa però sapere che, di fronte a tale disgrazia, la sagacia di alcune donne partorì un rimedio efficace: dettero infatti da mangiare alle loro galline «del marrubio pestato o tritato, impastandolo con acqua e crusca o farina», e «grazie a tale antidoto» salvarono i loro animali.

Furono, perciò, delle anonime donne a salvare la situazione. Certo, la notizia Salimbene non l’ha inventata, anche perché non avrebbe mai assegnato gratuitamente a delle donne un tale onore, visto che — da figlio del suo tempo quale era — non le avrebbe mai messe sullo stesso piano degli uomini; se quindi il cronista ci riferisce che furono delle donne a trovare il rimedio, così probabilmente fu, o almeno di questo egli era convinto. Anche oggi il rimedio al tanto temuto coronavirus potrebbe dunque venire da dove meno lo si aspetta: perché molto spesso Dio dona ai piccoli la saggezza dei grandi e ai deboli la potenza dei forti.

di Felice Accrocca