Dall’“io” narciso al “noi” condiviso

La distanza tra certezza e verità

Caravaggio, «Narciso» (1597-1599)
21 aprile 2020

Che ne sarà di noi? Nel tempo della crisi pandemica — come in ogni situazione critica che tocchi l’esistenza personale e sociale — questa domanda torna a importunarci, struggente e implacabile. Struggente, perché è il segno di un’ultima tenerezza nei nostri confronti, come un prendersi cura del nostro destino, cioè della possibilità di compiere o meno ciò che desideriamo nella vita. Implacabile, perché si tratta di una domanda a cui non riusciamo a dare una risposta scontata o automatica in base ai nostri propositi o alle nostre programmazioni. In essa infatti tocchiamo con mano il fatto che stare al mondo vuol dire essere sempre in questione, e che la vita è un’avventura — individuale e collettiva — che dobbiamo giocarci sempre.

L’unica risposta che ci verrebbe da dare a questo interrogativo è che nessuno può essere certo di cosa succederà. Ed è infatti un’incertezza strisciante, poi dilagante, il sentimento più condiviso nella nostra attuale condizione. Ma un mutamento culturale sta avvenendo sotto i nostri occhi. Nella lunga stagione del nichilismo di cui tutti bene o male siamo eredi, la certezza era stata da più parti considerata come una specie di disvalore, un residuo dogmatico rispetto all’emancipazione della ragione critica, il cui compito sembrava essere invece proprio quello di smontare ogni certezza come una presunzione pericolosa e in definitiva come una pretesa impossibile.

Questa posizione teorica si basava sulla constatazione sincera che il nostro modo di conoscere, sempre parziale e limitato, non ci permette mai di afferrare l’essenza indubitabile o la verità ultima del mondo. Ma c’era anche un altro motivo (forse meno innocente e più ideologico) per sostenere l’impossibilità della certezza, e cioè che quest’ultima in fondo sarebbe solo una nostra costruzione, una strategia psicologica, culturale e sociale per tutelarsi dai rischi della vita e del mondo. Insomma, esser certi significherebbe illudersi. Fino a dire che l’unica certezza è che non si è certi di niente — tranne di una cosa, sedimentata fin nel nostro linguaggio quotidiano, quando per esprimere l’assoluta convinzione su un evento o una persona, diciamo che è “certo come la morte”. E allora per vivere ci si aggrappa alle certezze costruite dal nostro fare, rinchiudendosi in recinti di sicurezza o affidandosi a narrazioni collettive.

D’altra parte, a dispetto della teoria, l’incertezza si è sempre più imposta come il vero male di vivere nel passaggio dal XX al XXI secolo. È quello che il sociologo Zygmunt Bauman ha descritto più volte lucidamente (per esempio nel saggio Paura liquida, Laterza 2008) come una nuova percezione della nostra impotenza e della nostra contingenza dopo il crollo dei diversi tentativi moderni di sostituirci a Dio come “signori” delle nostre vite. Per esorcizzare quest’incertezza gli individui si affidano volentieri alla protezione della società e dello Stato, ma è una aspettativa sempre più delusa che finisce per essere rigettata sulle spalle dei singoli, ormai esposti a dover fronteggiare inermi gli imprevisti della vita.

E gli ha fatto eco un altro grande sociologo, Ulrich Beck, acuto osservatore di quella che egli chiama la «società mondiale del rischio», in cui «la sicurezza antropologica della modernità» si rivela «una sabbia mobile» e l’individuo viene caricato della nuova, pesante responsabilità — materiale e morale — di affrontare i rischi globali sulla base della sua sola decisione (e mai come in questo nostro tempo virale capiamo cosa sia un rischio mondiale da fronteggiare attraverso comportamenti individuali). Con la conseguenza paradossale che l’individuo post-moderno, quello che persegue come ideale una «vita propria» sganciata da altri legami, se non con se stesso, finisce per essere preso dal panico che il sistema delle sicurezze possa collassare. E allora, lungi dall’essere il padrone di sé, fa appello sempre di più alla «razionalità del controllo» a livello politico, sociale e tecnologico, per rendere «nuovamente possibile il funzionamento indisturbato dei sistemi» (in Conditio humana. Il rischio nell’età globale, Laterza 2008).

Il paradosso allora è che proprio nell’epoca dell’incertezza diffusa torni a riaprirsi, in positivo, la domanda se c’è qualcosa o qualcuno di cui abbiamo certezza — e si riapre non come un’ipotesi astratta, ma come un bisogno essenziale per vivere. E d’un tratto la teoria scettica che identificava l’essere certi con l’essere dogmatici si mostra semplicemente inadeguata a cogliere il problema dell’esistenza dell’uomo contemporaneo. Come se mancasse clamorosamente il suo bersaglio.

Ma come spesso succede, dall’interno di una crisi può nascere una nuova comprensione dei fenomeni costitutivi della condizione umana e delle parole con cui li designiamo. Abitualmente la “certezza” è vista come un’esperienza soggettiva, a differenza dalla “verità” che indicherebbe invece uno stato di cose oggettivo. E per questo alcuni filosofi hanno preferito la verità alla certezza, con la motivazione che si potrebbe anche essere certi di cose in se stesse deplorevoli. Insomma, il passo dalla certezza alla fede cieca e irrazionale sarebbe sempre in agguato. In fondo, quando Hermann Göring, uno dei nazisti più devoti, affermava: «Io non ho nessuna coscienza, la mia coscienza si chiama Adolf Hitler», non esprimeva una (tragica) certezza? In questo caso la certezza è intesa come una credenza che non ha più il problema della verità.

Ma non basta appellarsi alla verità per far fuori la certezza. Proviamo a fare l’inverso, e chiediamoci: cosa sarebbe una verità senza certezza, se non una conoscenza senza impatto e riflesso nella mia esistenza? La verità, di suo, è indipendente dalle nostre opinioni o reazioni; tuttavia solo quando noi la riconosciamo, quando assentiamo o dissentiamo da essa, la verità diventa “esperienza” nostra. Qui è tutto il nocciolo della certezza, senza la quale non potremmo vivere: l’assenso che la nostra intelligenza — spinta dalla nostra libertà — dà al reale che ci viene incontro.

John Henry Newman è tra coloro che hanno messo a fuoco la certezza come una dinamica essenziale della nostra intelligenza e della nostra affettività. Nella sua Grammatica dell’assenso (1870, ora in Scritti filosofici, Bompiani 2005) ci dice che la certezza umana è «la percezione di una “verità” accompagnata dalla percezione “che è una verità”»: quando cioè una cosa vera non è solo vera, ma viene raggiunta, acquisita, assimilata coscientemente come “nostra”. La certezza di cui abbiamo bisogno non è solo un’assicurazione o una garanzia sulla vita, ma la fiducia in qualcosa di grande che non facciamo noi, che ci è dato o che incontriamo, ma grazie a cui possiamo camminare, rischiare, finanche sbagliare senza perdere il cammino, cioè la meta. Una certezza così non può essere semplicemente escogitata o programmata da noi: essa richiede che ce la testimoni qualcuno a cui possiamo accordare ragionevolmente la nostra fiducia.

La certezza di cui abbiamo bisogno è quella per cui un “io” solo o narciso possa diventare un “noi” condiviso. E infatti, sin dal primo sguardo di nostra madre quando siamo venuti al mondo, e poi via via lungo gli incontri decisivi della vita, la certezza vera è sempre un “tu”.

di Costantino Esposito