LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
L’insegnamento a distanza ha mostrato lacune risolvibili e la necessità di un progetto di ampio respiro

L’Università del futuro:
più tecnologia
ma serve ripensare
anche l’architettura

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21 aprile 2020

La chiusura delle sedi universitarie sta determinando una condizione nuova, improvvisa, ma soprattutto non prevista. Gli atenei sono ricorsi, con sufficiente tempestività, all’insegnamento a distanza, di fatto affiancandosi a quelli telematici; hanno affrontato il problema, mirando a soluzioni che non interrompessero i programmi dei corsi. I limiti sono però apparsi subito evidenti, legati per lo più all’inadeguatezza della dotazione tecnologica e alla preparazione informatica, modesta se non del tutto carente, di un certo numero di docenti.

Si è ricorsi all’uso di piattaforme, testate per l’occasione, scoprendo che non tutti gli insegnamenti potevano essere supportati dallo stesso modello di dialogo interattivo. Ad esempio, una lezione di progettazione architettonica si compone di una parte ex cathedra e di una parte pratica, dove il docente è impegnato, insieme allo studente, nell’analisi e nel commento degli elaborati grafici. È chiaro che, in questo caso, la comunicazione richiede piani diversi di approfondimento e quindi una strumentazione informatica che, per mantenere costante l’attenzione generale, deve poter dialogare con platee variabili, al fine di permettere a tutti (50-80 studenti) di partecipare attivamente a ogni fase. Del tutto diverse sono le esigenze di una disciplina umanistica, quando la lezione è estesa a un gruppo molto più numeroso.

Emerge, anche se scontato, che l’insegnamento a distanza comporta una specializzazione diversa, da calibrare per ogni tipo di disciplina. Non può essere affrontato come una semplice conferenza in video, perché è necessario che il docente sappia misurare il livello di concentrazione, e quindi di apprendimento, del suo uditorio. A ciò si deve aggiungere che la formula dell’e-learning dovrebbe permettere, visto che ne ha il potenziale, di ridurre gli abbandoni e, di conseguenza, far seguire le lezioni, anche se non tutte, in tempi differiti. L’opportunità più ricca è tuttavia la possibilità di combinare tra loro le offerte didattiche di più atenei, consentendo agli allievi di utilizzare, con profitto, altri approfondimenti, sia italiani che internazionali. Questo richiede ovviamente la semplificazione di alcuni processi, lasciando alla tecnologia informatica la possibilità di accertare la partecipazione attiva degli allievi.

Data la complessità del sistema, si intuisce, abbastanza facilmente, che si stanno incontrando non poche difficoltà, dovute in gran parte, all’improvvisazione del momento. Tuttavia, come è altrettanto semplice intuire, sono difficoltà risolvibili. Ciò cosa determinerà? Che le università tradizionali, in presenza, tenderanno a trasformarsi in telematiche, oppure che, approfittando in positivo dell’esperienza di questo periodo, svilupperanno quei percorsi formativi misti che, sicuramente, avrebbero già dovuto essere predisposti?

Pensare a semplici automatismi sarebbe del tutto errato, in quanto il processo dell’apprendimento resta complesso e non può affidarsi a scorciatoie. Si può individuare però, caso per caso, il percorso che si rivolge agli strumenti e alle tecniche più idonee per combinare i momenti in distanza con quelli in presenza.

Ciò comporta sicuramente una revisione della struttura edilizia, inadatta, secondo i canoni tradizionali dell’insegnamento, a sostenere un profondo cambiamento nella gestione del modello formativo. Si pone immediata la domanda se siano ancora necessarie le aule per 300 posti e oltre, senza mettere in discussione la presenza dell’aula magna, indispensabile per convegni e manifestazioni. Si evidenzia però la necessità di adeguare, se non suddividere, le altre aule molto grandi, tema non trascurabile, da affrontare con sufficiente anticipo, perché la riconversione, soprattutto degli ambienti a gradoni, richiede tempo ed esperienza progettuale. Si dovranno moltiplicare i punti d’ingresso, le uscite di sicurezza e si dovrà riordinare il modello d’uso dei locali. Gli edifici moderni, impostati su schemi modulari, potranno più facilmente essere riconvertiti, mentre gli ambienti all’interno dell’edilizia antica, spesso soggetta a vincoli, richiederanno difficili e onerose soluzioni. In questo caso il progetto edilizio e il progetto formativo, per giungere a risultati tra loro compatibili, dovranno procedere attraverso progressivi aggiustamenti e correzioni.

Quale dovrà essere lo spirito che sappia accompagnare l’università tradizionale nella sua inevitabile trasformazione affinché migliori i suoi livelli di efficienza e sappia far comprendere, con chiarezza, che il percorso solo telematico non può soddisfare l’intero ciclo formativo? Alla base di questo processo non potranno porsi solo fattori contingenti, come quello attuale, ma dovranno emergere valutazioni più strutturali, quali il rinnovato rapporto con la città e con l’ambiente e il manifestarsi di nuove domande professionali e di cultura.

Ritengo che il valore, anche attrattivo, dell’università debba rivolgersi sempre più alla costruzione fisica e ideale del concetto di comunità. Proporsi cioè come un luogo dove gli allievi costruiscono il loro futuro scientifico, partecipando a una vita fatta di scambi costanti e frequenti tra loro, con i professori e con gli esperti esterni coinvolti in incontri disciplinari trasversali. Ciò comporta il prevalere di attività seminariali con gruppi abbastanza contenuti e la presenza del docente e del tutor attraverso un impegno, se non continuo, alquanto assiduo.

Ovviamente l’idea di comunità non si costruisce solo attraverso la rivisitazione della struttura universitaria, rimodulando le aule grandi in ambienti più familiari, ma, soprattutto, rivolgendo l’impegno a dotare il patrimonio universitario di strutture complementari, destinate proprio a consolidare il carattere di appartenenza: gli spazi verdi e all’aperto per le attività ricreative, le mense, i teatri, i servizi necessari allo studio e ai laboratori integrativi, gli ambienti di soggiorno e di studio individuale. Quindi quell’insieme di dotazioni che qualificano la condizione di abitabilità, permettendo agli studenti, ai professori e a tutto il personale una permanenza confortevole durante la giornata.

A queste dotazioni si deve inoltre aggiungere l’offerta residenziale che presenta, in quasi tutto il territorio nazionale, margini di ampia indeterminatezza. Il suo dimensionamento è calcolato in base alla domanda dei fuorisede, mentre, in funzione della crescente mobilità studentesca e della costruzione di un sempre più consolidato spirito di appartenenza alla struttura, esso dovrebbe estendersi il più possibile, proprio per favorire l’uscita dall’ambito familiare e facilitare la completa autonomia dello studente, una volta conseguito il titolo e avviato l’impegno lavorativo.

Le residenze studentesche devono pertanto essere al centro dell’adeguamento dell’università. La domanda elevata, l’estensione dell’offerta, una gestione razionalizzata che comprima i tempi morti dei posti alloggio e l’attuale disponibilità di capitali internazionali invitano a guardare le nuove possibilità di intervento con grande concretezza, dando spazio e sviluppo a una ricerca che punti a tipologie innovative, utili anche a rilanciare l’intero mercato immobiliare. La scelta dovrebbe rivolgersi a soluzioni edilizie flessibili, dove la condivisione dei servizi possa diventare una dotazione adeguata anche per una residenza a utenza differenziata. Una casa per studenti è compatibile con le esigenze di un’abitazione multifamiliare o di un alloggio per anziani. A ciò si aggiunga la spinta, ormai diffusa, a cambiare sede sia lavorativa che residenziale. Alcune esperienze di all inclusive sono reali, così come la condizione ibrida che pone su piani intercambiabili lo student-housing e il co-housing.

Rafforzato in termini di riconoscimento e di appartenenza dall’ampiezza delle dotazioni comunitarie, ogni ateneo potrebbe, proprio sfruttando il potenziale dell’insegnamento a distanza, estendere la sua offerta formativa: impostare corsi di studio consorziati, riconoscendo il valore dei crediti conseguiti altrove, e permettere, in tal modo, ai propri allievi di costruirsi un curriculum, punteggiato da eccellenze e specializzazioni.

In conclusione ritengo che il concetto di didattica blended, che prevede la separazione tra distanza e presenza per quanto riguarda la fornitura delle lezioni e la prova d’esame, possa estendersi alla combinazione, che però non può che avvenire gradualmente, dell’intero percorso universitario. Sicuramente questa esperienza, imposta dalla pandemia, di chiudere le università per un periodo abbastanza lungo lascerà indicazioni che, ripeto, non devono essere assunte come spunti per semplificare, ma come un’occasione per mettere in luce le più opportune possibilità di miglioramento della struttura universitaria e della sua organizzazione accademica, sia nel campo esclusivo della formazione e della ricerca, sia in quello dell’integrazione con la società e l’ambiente urbano.

di Mario Panizza