Prossimità e relazione in uno studio sullo spazio degli affetti

L’intelligenza del riccio

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21 aprile 2020

L’esistenza dell’uomo nel mondo, fin dai primi passi, segue una dinamica in cui giocano un ruolo fondamentale il tempo e lo spazio. Per quanto riguarda il tempo, ogni individuo, ma anche ogni assetto sociale, deve fare innanzitutto i conti con la sua storia, attraverso una memoria creativa che non imprigiona nel passato, pregiudicando in tal modo il presente e l’avvenire. A proposito dello spazio, le persone devono invece trovare, ponendosi alla giusta distanza, la loro corretta collocazione rispetto agli oggetti dell’esperienza e agli altri. Come si vede, si tratta di un tema particolarmente intrigante nel tempo del coronavirus.

Il tema della distanza, come ci ricorda Donatella Pagliacci in una pregevole ricognizione dei suoi molteplici risvolti, non ha dunque solo un significato topografico, ma assume una precisa rilevanza antropologica ed esistenziale. Da questa prospettiva, la persona umana è dunque chiamata a trovare la giusta «distanza tra sé e sé, tra sé e gli altri e tra sé e il mondo» (L’io nella distanza. Essere in relazione, oltre la prossimità, Milano, Mimesis, 2019, pagine 308, euro 24). Anche se può sembrare un paradosso, l’esperienza ci conferma dunque che il rapporto con il proprio io è la prima sfida che l’uomo deve affrontare. La più antica rappresentazione di questo aspetto del problema ci è offerta dal mito di Narciso, in cui l’incomprensione della differenza e distanza tra l’io e il tu relega il soggetto in un isolamento totale, portando il povero giovane all’autodistruzione.

La relazione tra l’io e gli altri presenta una ricca fenomenologia di situazioni, nelle quali è sempre in gioco una relazione che richiede di sapersi porre a giusta distanza. Fondamentale quella padre-figlio, oggi diventata particolarmente problematica, e costretta a ripensarsi a seguito della crisi di ogni forma di autorità. Ricca di singolari suggestioni si presenta la situazione speculare, quale si manifesta nella figura della donna-madre, che ha caratteristiche assolutamente specifiche, specialmente rispetto al nascituro e al neonato. Anche l’amore e l’amicizia richiedono un sapiente dosaggio tra prossimità e distanza, per evitare la sindrome del possesso dell’altro che si sostituisce, come forma patologica, al rapporto libero di due persone che occupano, senza pestarsi i piedi, il medesimo spazio esistenziale. Uno spazio in cui la reciprocità degli affetti, per poter dispiegare tutte le sue potenzialità, non ha assolutamente la forma del dominio ma del dono gratuito.

Vi è poi la questione del rapporto che passa dalla relazione io-tu a quella connessa al più ampio mondo sociale, ovvero la dimensione del “noi”. A proposito del rapporto con gli altri viene in mente Schopenhauer, pensatore noto per il suo proverbiale pessimismo, che ha scritto un graziosissimo apologo che ci aiuta a stabilire, per quanto riguarda le relazioni interpersonali e sociali, un iniziale criterio di misura. Si tratta dell’apologo noto come il dilemma del porcospino: «Alcuni porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal pericolo di rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò nuovamente a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione».

Il tema può avere una sua declinazione anche in chiave religiosa, in particolare riguardo alla tradizione ebraico-cristiana. Il rapporto uomo-Dio segue in questo contesto un paradigma originale rispetto ai politeismi dell’antichità. Il Dio creatore si colloca infatti in un’assoluta distanza ontologica rispetto alle creature, ma questo non impedisce che sia, allo stesso tempo, nella più vera prossimità per quanto attiene alla sua cura e al suo amore per loro. Il peccato dell’uomo è dunque l’esperienza di una distanza che non rispetta più la misura del rapporto, oscillando tra l’eccesso di una confidenza che oblia la differenza e l’allontanamento come espiazione della colpa commessa.

Quanto all’esperienza del suo essere al mondo, non mancano, per l’essere umano, le occasioni in cui il tema della distanza si presenta con un’urgenza tutta particolare. Basti pensare all’esperienza del dolore e della morte. Anche in tutti questi casi occorre trovare la giusta misura della partecipazione e del distacco, per far sì che la persona non venga travolta da un’ineliminabile angoscia del nulla, ma sappia, in date situazioni, “mettere la distanza” tra il proprio io e la morte dell’altro, attraverso un’elaborazione del dolore che non chiuda tutte le porte alla consolazione e alla speranza.

Infine, in relazione alla distanza presa contemporaneamente nel suo duplice significato, spaziale e sociale, il libro accenna qua e là, anche senza dedicargli una specifica riflessione, al mutamento antropologico connesso alle nuove forme di comunicazione. Le tecnologie informatiche stanno infatti trasformando molti dei tradizionali termini di relazione. Di questi mutamenti credo che non abbiamo ancora fino in fondo afferrato gli effetti, trattandosi tra l’altro di un processo in atto. Il primo paradosso è comunque costituito da un dato innegabile, ovvero dall’accrescimento delle possibilità di comunicazione a prescindere dalla distanza. Quanto più aumentano le possibilità tecniche di essere in relazione a prescindere dalle distanze, tanto più si allentano le forme tradizionali della comunicazione dal vivo. E qui si apre il nuovo interrogativo: questa inedita asimmetria è la soluzione del problema oppure ci rimanda a nuove stimolanti (e inquietanti) domande?

di Paolo Nepi