Tempore Famis

L’abbeveratoio e la promessa dentro al cuore

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17 aprile 2020

Nell’antica pieve di San Pietro a Romena nel comune di Pratovecchio ancora oggi il visitatore può trovare incisa, in un capitello della navata sinistra, una scritta con il nome del committente, Alberico, e la data, che recita così: tempore famis mclii (in tempo di carestia 1152). Questa scritta ha dato il nome alla presente rubrica che da più di un mese raccoglie riflessioni, spunti e meditazioni che vengono offerte al lettore in questo terribile “tempo di fame”. La suggestione sottostante è evidente: nonostante si viva un periodo di privazione e di sofferenza, la comunità umana risponde, resiste e si concentra nel proprio lavoro, nella propria “arte”, sforzandosi anzi a generare bellezza, perché questa è la risposta adeguata all’uomo, all’altezza della sua chiamata. In termini etici è la stessa risposta di chi, in un momento di difficoltà, non si concentra sul male subito ma risponde con il bene generoso, pensando concretamente e operosamente agli altri anziché rinchiudersi nel contemplare il problema che lo affligge o nel crogiolarsi nel risentimento del proprio dolore. È la risposta di Maria che all’annuncio dell’angelo non si paralizza ma al contrario si mette in movimento e raggiunge la cugina Elisabetta per aiutarla, sospinta dalla forza di una chiamata e di una promessa. Sulla sorprendente “operosità” propria dell’uomo il seguente testo è quanto mai emblematico; è tratto da Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy, non il suo migliore romanzo ma senz’altro il più famoso, grazie alla trasposizione cinematografica che valse il premio Oscar ai registi, i fratelli Ethan e Joel Coen.

Quando uscivi dalla porta del retro di casa, da un lato trovavi un abbeveratoio di pietra in mezzo a quelle erbacce. C’era un tubo zincato che scendeva dal tetto e l’abbeveratoio era quasi sempre pieno, e mi ricordo che una volta mi fermai lì, mi accovacciai, lo guardai e mi misi a pensare. Non so da quanto tempo stava lì. Cento anni. Duecento. Sulla pietra si vedevano le tracce dello scalpello. Era scavato nella pietra dura, lungo quasi due metri, largo suppergiù mezzo e profondo altrettanto. Scavato nella pietra a colpi di scalpello. E mi misi a pensare all’uomo che l’aveva fabbricato. Quel paese non aveva avuto periodi di pace particolarmente lunghi, a quanto ne sapevo. Dopo di allora ho letto un po’ di libri di storia e mi sa che di periodi di pace non ne ha avuto proprio nessuno. Ma quell’uomo si è messo lì con una mazza ed uno scalpello e aveva scavato un abbeveratoio di pietra, che sarebbe potuto durare diecimila anni. E perché? in che cosa credeva questo tizio? Di certo non credeva che non sarebbe cambiato nulla. Uno potrebbe pensare anche a questo. Ma, secondo me, non poteva essere così ingenuo. Ci ho riflettuto tanto. Ci riflettei anche dopo essermene andato da lì quando la casa era ridotta a un mucchio di macerie. E ve lo dico, secondo me quell’abbeveratoio è ancora lì. Ci voleva ben altro per spostarlo, ve lo assicuro. E allora penso a quel tizio seduto lì con la mazza e lo scalpello, magari un paio d’ore dopo cena, non lo so. E devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una specie di promessa dentro il cuore. E io non ho certo intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. È la cosa che mi piacerebbe fare più di tutte.

di Cormac McCarthy