Il 24 aprile 1910 nasceva Pupella Maggio

Istinto puro

Pupella Maggio ed Eduardo De Filippo in una scena di «Natale in Casa Cupiello»
20 aprile 2020

Quando il teatro si faceva per fame


«A due anni mi portarono in scena dentro uno scatolone, legata proprio come una bambola, perché non scivolassi fuori. E così il mio destino fu segnato. Da “Pupatella”, attraverso la poupée francese, divenni per tutti “Pupella” nel teatro e nella vita». Giustina Maria Maggio, nata il 24 aprile 1910, era una bizzarra creatura, da tutti conosciuta con quello strano nome, bambolesco, adatto alla pupa burattina, coi vestitini di cotone e le gambe secche e lunghe, che piroettava sui palcoscenici popolari, aprendo breccia nel cuore del cattivone della sceneggiata, “‘o malamente”. Le fu affibbiato dopo aver recitato al Teatro Orfei ne La pupa movibile, tratto da una celebre pochade francese, nel riadattamento di Eduardo Scarpetta.

A quei tempi si faceva il teatro non per amore di gloria, ma per fame. Non si entrava in arte, ma si nasceva in arte, in famiglie di scavalcamontagne, spesati con uova fresche e formaggi, in cui già in fasce s’era pronti per la ribalta. Il fratello di Pupella, Beniamino, a sei anni, faceva il cantante prodigio nella compagnia del papà e, a quindici, diventò ballerino acrobata. La madre allattava Rosalia, un’altra dei numerosissimi Maggio, nei cambi di scena. Nella biografia Poca luce in tanto spazio (Carlo Grassetti editore, 1995), Pupella raccontò che, nei momenti di magra, suo nonno prendeva gli escrementi di pecora, li rigirava nello zucchero vanigliato, li confezionava nelle scatolette della cromatina Brill, per rivenderle come pillole per la tosse.

A sei anni Pupella già lavorava, ma andava anche a scuola perché i genitori volevano che prendesse un titolo di studio, ma gli anni scolastici della giovanissima attrice non furono dei più tranquilli. Aggredì una compagna di classe che la prendeva in giro per il suo colletto inamidato e, così, «fu cacciata da tutte le scuole del Regno», come i più ribaldi ragazzacci del libro Cuore. Suo padre cercò di assicurarle comunque un’istruzione, sottoponendola al precetto della moglie di un amico, una maestra palermitana, che però non riuscì mai a farla studiare. E così, per tutta la vita, continuò a rifiutare l’eruditismo teatrale e letterario: «Che me ne faccio io di Eminguèi? Mica mi ha dato da vivere a me Eminguèi». Non concepì mai la cultura come un prodotto per raffinati, un guadagno intellettuale, atto ad ornare un’astratta cerebralità. Cresciuta alla scuola del pragmatismo guittesco, rimase convinta che il teatro fosse massimamente la minestra e la pagnotta. Quando conobbe Eduardo De Filippo, intenzionato a scritturarla per la Scarpettiana, le fu chiesto se avesse mai sentito parlare di Miseria e Nobiltà. La sua risposta fu ruvida ed essenziale: «No, diretto’!». «Gesù, Gesù!», commentò sorpreso Eduardo. «Diretto’, io conosco solo quello che mi offrono per lavorare. Del resto non me ne importa proprio!». Quella presenza di spirito, unita allo sprezzo per il sussiego dell’arte, le valse l’ingaggio seduta stante. Di lei Eduardo dirà: «Avevo bisogno di questa faccia di terra cotta etrusca, di quest’anima e di questo coraggio».

A sfogliare le recensioni deliziate di critici e addetti ai lavori si fa fatica a comprendere l’imperscrutabile fenomeno Maggio. Il noto critico e storico del teatro, Achille Fiocco, su «Sipario Aperto», dopo averla vista impersonare la Madre di Brecht ebbe a dire: «Tutte le teorie, le tesi e antitesi più o meno metafisiche di Brecht, non valgono un’unghia, il dito mignolo, di quest’attrice». Di quella madre russa, Pupella fece una madre napoletana, scavando nel testo, differendo l’intelligenza, il genio, l’impegno politico dell’originale brechtiano, sino a scovare il cuore del personaggio, perché «miseria, dolore e figli sono uguali in tutto il mondo». E quando lei, che di politica non si interessava, si accostò all’orlo del palcoscenico con in braccio una bandiera della rivoluzione, stringendola al petto come a stringere il figlio ucciso dalla polizia zarista, a nessuno più importò del sottotesto bolscevico. Tutti videro una mater dolorosa dinanzi a un figlio deposto; l’applauso del pubblico divenne un boato. Visconti, Patroni Griffi, Calenda, Galdieri, Tornatore fecero tripli salti carpiati per reclutarla nei loro lavori. Era quella sua stupefacente simbiosi ad affascinarli, la voce rallentata dalla cadenza napoletana, il timbro tremolante, che ricordava le fiammelle di candela, nelle edicole votive dei vicoli partenopei. Zeffirelli le tolse il saluto perché si rifiutò di impersonare Anna nel suo Gesù di Nazareth. «Non potevo», scrisse un giorno Pupella, «ero troppo impegnata con Eduardo». Per convincerla a recitare nel ruolo di Miranda Biondi, Fellini, innamorato della «fanciullezza del suo sguardo» e della spontaneità cumana e greca della sua gestualità, si mise letteralmente in ginocchio.

Sarà che Pupella aveva assorbito col latte materno quello che Evreinoff chiamava l’istinto del teatro, che è anche istinto della vita. Grazie a quell’istinto, non ha mai avuto bisogno di recitare. A rivederla nei panni di Concetta, moglie e madre degli infelicissimi Cupiello, si rimane incantati dal suo modo così naturale e vivo di muoversi e di gestire la scena. Guardi le mani affaccendate nei primi servizi di casa, gli occhi che strizza per compensare la forte miopia, mentre nella stanza da letto biancheggia il grande gelo delle case del piccolo popolo. Non lo dice che ha freddo, eppure ne è tutta intirizzita. Dà a quel freddo gesti, vita, movimento, come a volerli trasformare in calore. Imita e inventa il codice mimico del freddo. Da quel momento l’universo ideale di migliaia di appassionati di teatro ha il gesto del freddo di Pupella.

Quando fu messa in prova Natale in casa Cupiello, Eduardo, altro fuoriclasse dell’«inganno sincero» della recitazione, la chiamò in disparte e le disse: «Signora, vi dovete procurare un paio di scarpe di quelle quasi fatte in casa, attraverso mille aggiusti». Pupella prese a prestito le scarpe di Filomena, una donna che la «aiutava in casa» e che «aveva i piedi storti». Quando le vide, Eduardo disse che erano le scarpe giuste per far camminare Concetta. E quel suo scalpicciare sul palcoscenico vale, a guardarlo e a sentirlo, più d’un intero corso in accademia.

di Roberto Rosano