La poesia di Margherita Guidacci

Intelligenza d’amore

Un ritratto di Margherita Guidacci
22 aprile 2020

La poesia di Margherita Guidacci (Firenze 1921 – Roma 1992), rimane a tutt’oggi ingiustamente dimenticata: troppo alta la sua fede, non chiusa nei confini ristretti di una religiosità puramente confessionale e devozionale; troppo profonda la parola, che nella sua limpidità evangelica racchiude innumerevoli potenzialità di significato. Eppure, «sotto l'aspetto della sua attività di cattolica impegnata possiamo tranquillamente associarla a quelle luminose figure dell’umanesimo cristiano che nel Novecento ha fatto incrociare personalità come Giorgio La Pira, padre Ernesto Balducci, don Lorenzo Milani, Mario Luzi», scrive Anna Maria Tamburini nel suo recente Margherita Guidacci. La poesia nella vita (Roma, Aracne, 2019, pagine 300, euro 18), dove ricostruisce, in modo scrupoloso e partecipato, il profilo biografico e letterario della scrittrice fiorentina, sul fondamento di testimonianze di prima mano, carteggi editi e inediti, materiale d’archivio.

Poeta, traduttrice, saggista, giornalista, docente di letteratura angloamericana Margherita Guidacci rimane una figura che si staglia solitaria nella poesia del Novecento, poiché libera da ogni scuola, poiché fedele a un verso che nasce dal confronto serrato con l’esperienza del vivere: l’opera prima La sabbia e l’angelo (Vallecchi 1946), scritta in un tempo brevissimo all’età di ventiquattro anni — continua Tamburini — nasce sotto l’urgenza dell’amore alla prova del lutto, per il bisogno assoluto di stabilire un ponte tra vivi e morti: «Chi grida sull’alto spartiacque è udito da entrambe le valli / Perciò la voce dei poeti intendono i viventi ed i morti. La poesia può dunque unire le due sponde».

La morte, per lei che a soli dieci anni vede spegnersi il padre per malattia, che vive la guerra, che si trova ad attraversare una dolorosa crisi esistenziale nella maturità, e ancora la morte dei propri cari, il marito, la madre, rimane sempre un termine di confronto ineludibile anche nei momenti di maggiore luminosità: «Avevo conosciuto prima lo sfiorire che il fiorire — scrive di sé, Margherita Guidacci —, avevo veduto prima come si muore che come si vive, e nella vita ero entrata, per così dire, a ritroso, senza poter staccare lo sguardo dal termine che ci attende sulla terra, il disfacimento della carne».

Ma la convivenza con il mistero della morte non le preclude una franca apertura alla vita, una fiducia aperta nella possibilità di amare. La guerra, come per una sorta di strana compensazione, le porta l’amore per Francisco Canepa, un giovane soldato proveniente dal Cile conosciuto nel segno della poesia, essendo lui in cerca di qualcuno che potesse tradurre in un dignitoso italiano alcuni testi di Gabriela Mistral. Ma il reciproco sentimento non può sfociare, per una coscienza cristiana, in una relazione affettiva con qualche sbocco, essendo lui già legato, e quindi si dicono addio: «Francisco — precisa Tamburini — si trovò ad attraversare tutta l'esperienza della guerra, compreso il fronte russo — “la pianura nevosa dove rischiasti / in guerra la tua vita” — e forse anche una partenza repentina in quella direzione, ma ci fu il tempo di salutarsi quando nel giugno 1946 lui lasciò l’Italia per salpare sul primo mercantile utile diretto a Panama, alla volta del Cile». Molti dei testi di Guidacci sono dunque segnati dal tema dell’addio, della rinuncia, dell’abbandono, come i versi di Nessuna parola: «Poiché non mi veniva nessuna parola / (la parola era «addio», ma non riuscivo a dirla)».

Pare sia stato quel giovane amore a regalarle le poesie di Emily Dickinson che Margherita inizia a tradurre e a pubblicare, sino alla collaborazione al prestigioso volume contenente l’opera omnia della poetessa di Amherst, Tutte le poesie a cura di Marisa Bulgheroni (Mondadori 1997), uscito dopo la sua morte. Margherita, per moltissimo tempo perde di vista l’intellettuale cileno, sino a quando, vedova già da cinque anni, la raggiunge inaspettatamente una telefonata serale: è Francisco che è riuscito a trovare il suo numero attraverso una serie di incredibili peripezie e ricerche. Ora, commenta Tamburini «avere ritrovato tra i vivi dopo tanti anni, e dopo tutta la consumata esperienza di morte, questo volto amato e offerto, ha risignificato tutta la propria umana vicenda: Margherita ha pregustato la risurrezione, ha dovuto rileggere la propria storia, ha compreso d’essere stata chiamata in quanto poeta a cantare nella verità questo mistero d’amore che sempre ci sospinge. La sabbia e l’angelo è poesia profetica».

Questo amore ritrovato diviene il grimaldello adatto a scardinare una profonda fase di buio testimoniata dalla raccolta Neurosuite (1970), con cui Guidacci si inserisce nel dibattito di quel periodo sulla cura delle malattie mentali, raccontando una esperienza di ricovero in clinica che si è sempre attribuita a lei, narrante in prima persona, ma di cui in famiglia non si seppe mai e che potrebbe avere riguardato invece altre persone, come un’amica cui era solita fare visita in Santa Maria della Pietà, per cui si dava molta pena. Importante la testimonianza della figlia, Elisa Pinna, dalla quale Tamburini ha ottenuto informazioni di prima mano: «Neurosuite rappresenta il mio Nadir — scrive Guidacci stessa —, il punto di desolazione. Anche se poi quando presi a scrivere il libro, mi sentii felice: felice perché in quel modo mi liberavo».

Il processo di liberazione culmina negli anni Ottanta, accelerato da quell’amore inaspettato, centrale nella raccolta Inno alla gioia (Nardini 1983), svolta luminosa dell’ultimo decennio. Chiosa Tamburini; «Se volessimo esprimere con una formula icastica il senso di tutta la poesia di Margherita Guidacci sintetizzandone interamente il percorso, potremmo pensare semplicemente a “intelligenza d’amore” senza timore di tradire, né sminuire intuizioni esperienze e memorie. Senza timore di ripercorrere in quanto interpreti solchi già tracciati, poiché lei stessa induce a tanto i suoi lettori, e con la stessa necessaria libertà con cui non avrebbe potuto da parte sua non “inventare” il “suo proprio” inno alla gioia».

di Elena Buia Rutt