Attendendo la fine del lockdown

Il timore di tornare nella “giungla”

Vincent van Gogh, «Vecchio che soffre» (1890)
29 aprile 2020

Non vedo l’ora di uscire. Ecco un esempio di frase che cambia a seconda del contesto. Letta tre mesi fa avrebbe fatto pensare a un alunno impaziente alla fine della giornata di scuola. Ora, è l’inno di 4 miliardi di persone in quarantena. Ma è proprio così? Come sarà il d-day di fine lockdown? «Non sarà come il momento in cui suona la campanella, quando i ragazzi si precipitano entusiasti a sfogare le energie accumulate», avverte Liliana Matteucci, psicoterapeuta esperta in gruppoanalisi che ha trascorso l’isolamento a Roma continuando il suo lavoro di ascolto. Una prospettiva privilegiata per comprendere il grande assente dell’emergenza covid-19: la nostra psiche. «Si sono fin qui, anche comprensibilmente, privilegiati gli aspetti legati alla salute fisica; ora si attiveranno altre sfere dell’essere umano, a partire dalla situazione economica e psicologica: le persone saranno spaventate e disorientate, dopo due mesi di isolamento, avranno voglia e timore di uscire dalle loro abitazioni vissute come luoghi sicuri, protettivi». «La casa è il vostro corpo più grande», scriveva Khalil Gibran. Un luogo la cui vera natura, diceva il letterato e architetto John Ruskin, è di «rifugio non soltanto dal torto, ma anche da ogni paura, dubbio e discordia». Le parole dei poeti colgono un riflesso emerso anche nella pratica della psicoterapia durante la quarantena. «La propria casa — dice Matteucci — è percepita come luogo sicuro, gabbia che, nello stesso tempo, toglie libertà e offre protezione dallo spettro della morte e della malattia».

E mentre nutrite task force di esperti si interrogano su cosa succederà alla nostra economia, ai trasporti, alla salute quando la porta di quella gabbia si aprirà, resta poco esplorata la potenziale reazione emotiva. «Nel 1978 con la legge Basaglia e la chiusura dei manicomi — rievoca Matteucci — gli ospiti che da una vita risiedevano in quelle mura percepirono con terrore l’apertura delle porte verso il mondo e la libertà». Per fortuna la nostra permanenza è stata in confronto relativamente breve ed è prevedibile che lo sia anche il tempo di recupero, ma «nelle persone più fragili e insicure, tornare fuori nella “giungla” potrà significare emotivamente sentirsi esposti al pericolo dell’altro, lo sconosciuto, il portatore di morte».

Può sembrare un dubbio collaterale, una variabile minore rispetto alle grandi incognite che ci attendono, ma proprio l’esperienza del distanziamento sociale ci ha insegnato che le reazioni emotive di massa sono un fattore chiave quando si è costretti a imporre scelte di ingegneria sociale. Per tornare a muoverci, spendere, investire e anche godere appieno degli aspetti spirituali essenziali per la nostra realizzazione, servono fiducia e libertà.

«Libertà che passa attraverso la costruzione di un tessuto di relazioni, di luoghi e persone che riconosciamo — conclude la psicoterapeuta —. Il timore di perdere le proprie certezze, i propri legami, in questo scenario di covid-19 fa passare tanti da una condizione di agio alla possibilità di crollo dei propri progetti». Solo considerando che siamo fatti di tante parti, anche quelle invisibili della spiritualità e dell’emotività, e coltivandole tutte, è il senso del messaggio dell’esperta, si potrà uscire davvero dall’emergenza che è dentro di noi.

di Giuseppe Marino