Lorenzo Perrone e Primo Levi ad Auschwitz

Il muratore e l’intellettuale

Lorenzo Perrone
25 aprile 2020

Da una fossa comune al riconoscimento dello Yad Vashem


I gomitoli di lana hanno una loro «provvidenza sostanziale»; sembrano fatti per spiegarsi mano a mano che s’adoperano, nell’ordine deciso da chi li ha avvolti. Accade poi che un gatto maldestro, giocando allo scombino, porti il filo dove non deve stare, tra le gambe delle sedie e dei tavoli. Anche la Storia, ogni tanto, si comporta come «il gatto maldestro» e, una volta, addirittura, giocando coi fili degli eventi, e arruffandoli alla rinfusa, fece incontrare un muratore di Fossano con uno dei più grandi intellettuali del Novecento.

Lorenzo Perrone viene al mondo l’11 settembre 1904 da Giuseppe e Giovanna Tallone, di mestiere robivecchi, secondogenito di sei figli, in Borgo Vecchio, la zona più povera di Fossano. Primo Levi, invece, nasce in una famiglia sefardita, il 31 luglio 1919, al numero 75 di corso Re Umberto, nella zona della buona borghesia torinese di inizio Novecento. Bisognerà aspettare i «Fatti dell’estate» del 1944 per sapere come l’uno entri in rapporto con l’altro; nel frattempo le loro vite muovono parallele, ciascuna al proprio posto e nel proprio tempo.

Lorenzo lascia la scuola a dieci anni e a mala pena impara a scrivere, guadagnandosi il pane ed il rispetto del burghué insieme al soprannome di «tacca», attaccalite. Suo padre, silenzioso e introverso, diventa violento quando alza il fiasco e ai figli maschi trasmette il suo stesso amore per il vino, la ruvidezza del carattere, la tendenza all’isolamento, ma anche un lato, ben nascosto, di correttezza e generosità.

Primo, dopo la laurea in chimica, trova impiego presso la Wander di Milano, una fabbrica svizzera di medicinali; frequenta i circoli antifascisti e, dopo l’occupazione nazista, si unisce ad un gruppo di partigiani che opera in Valle d’Aosta. Tradito da una soffiata, viene internato a Fossoli e spedito ad Auschwitz nel febbraio 1944.

Lorenzo, invece, ha imparato il mestiere del muratore, ma a causa del carattere orgoglioso, anarchico e attaccabrighe, stando a quanto ci dice Samuele Saleri in L’importanza di Lorenzo Perone nelle opere di Primo Levi lo perde con la stessa facilità con cui lo trova. Il 3 ottobre 1935 l’Italia invade l’Etiopia. Per evitare di essere richiamato o forse per necessità, Lorenzo percorre insieme al fratello i sentieri dei contrabbandieri per lavorare in Francia. E lì, nel 1940, a causa dell’invasione tedesca e italiana, viene fatto prigioniero e liberato solo alla resa dei francesi. Ricomincia a lavorare al servizio della ditta Beotti che, insieme ad altre aziende italiane, ha stipulato un accordo di collaborazione con la I.G.Farben. Viene inviato ad Auschwitz in aggiunta ad altri settemila italiani, incaricati di realizzare lavori in muratura per l’ampliamento delle strutture del lager. Il 17 aprile 1942 arriva alla Buna, alloggia nel campo dei lavoratori italiani situato su una collina fra Monowitz e Birkenau. Nel cantiere di Monowitz lavora anche Primo Levi, in qualità di Häftlinge, ebreo deportato. Al chimico torinese viene chiesto di assistere alcuni operai (con deciso accento piemontese) nella costruzione di un muro.

Con grandi rischi, Primo riesce ad avvicinare uno di loro, Lorenzo, e a metterlo al corrente delle terribili condizioni di vita e di lavoro dei prigionieri nazisti. «In questo mondo scosso ogni giorno più profondamente dai fremiti della fine vicina, fra nuovi terrori, speranze ed intervalli di schiavitù esacerbata, mi accadde di incontrare Lorenzo» (Se questo è un uomo). Come ben racconta Guillermo Vincenti in Ricordi di guerra. A settant’anni dalla liberazione di Fossano, da quel momento, Perrone, comincia a sfamare il chimico torinese, «pur conscio dei pericoli che corre, prende a rubare ogni giorno un po’ di cibo dalla cucina», nascondendolo in una menaschka (secchiello rudimentale). Un giorno si presenta con una zuppa sporca di fango e si scusa per l’inconveniente, senza dare alcuna spiegazione. Primo scopre soltanto dopo la guerra che, poco prima, una bomba gli è scoppiata vicino, rompendogli un timpano e che Lorenzo ha effettuato comunque la consegna, senza fare parola dell’accaduto. Per rendergli più sopportabile il freddo continentale, gli procura un maglione rattoppato. Riesce a metterlo in contatto con la madre e la sorella, tramite la «signorina Bianca», scrivendo di suo pugno cartoline e lettere zeppe di ingenue sgrammaticature: «Carissima signorina Bianca o visto ieri primo sta bene lavora».

Levi vede nel muratore di Fossano un’eccezione alla disumanizzazione. Negando il suo consenso al protocollo di morte e alla «pacata sicurezza» dei funzionari tedeschi, Lorenzo fa scricchiolare il pessimismo di Primo e gli restituisce la speranza che, da qualche parte, esista ancora una «remota possibilità di bene», «un’umanità sepolta» sotto il violento darwinismo sociale della Terza Germania. Atroce dottrina, che porta gli esseri umani a non guardarsi come individui della stessa specie, e che Lorenzo ripudia con l’impulsiva umanità senza umanesimo del burghué e «col suo modo facile e piano di essere buono». «Lorenzo non parlava, ma capiva», «la sua umanità pura e incontaminata (…) era al di fuori di questo mondo di negazione. (…) grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare io stesso di essere un uomo».

Primo ed il suo amico Alberto, che pure si giova dell’altruismo di Lorenzo, vogliono ricompensarlo, ottenendo ogni volta secchi rifiuti. I due non si arrendono e decidono di riparargli le scarpe, un gesto semplice, che il muratore accetta con riluttanza, soltanto per non mortificarli.

Dopo questi fatti, Perrone sparisce dal più celebre scritto di Levi, per riapparire in altre opere, sia come Lorenzo di Se questo è un uomo, sia come ispiratore di personaggi di fantasia. Sappiamo che torna da Auschwitz a piedi, come sempre, «per le strade del mondo e per la via dritta della sua coscienza», guidato soltanto dalle stelle; che, prima di fare ritorno al paese, fa visita alla madre di Primo e le «sciacqua il cuore in aceto», rivelandole che suo figlio non ha speranza di tornare vivo. Sappiamo che la donna vuole pagargli il viaggio di ritorno, senza successo.

Scopriamo che, dopo la guerra, l’intellettuale ed il muratore si rivedono a Fossano, bevono insieme al Pigher (“pigro” in piemontese), l’osteria dei pescatori, sullo Stura. In quel momento i rapporti si invertono: è Lorenzo ad aver bisogno di Primo, senza volerlo mai ammettere. Non riesce più a lavorare, rifiuta regole e padroni, beve senza controllo, «non per vizio, ma per uscire dal mondo», poiché vivere non gli interessa più. Si è ammalato del male dei reduci senza essere reduce. Per i concittadini, ignari di quanto accaduto e neanche messi al corrente, Perrone è soltanto la scorza che non può nascondere: uno scorbutico ubriacone, di odore sgradevole, cencioso come un clochard, che passa il suo tempo appoggiato al bancone del Pigher e che è sempre meglio evitare. Lorenzo muore di lì a poco, con la complicità di una tubercolosi senza scampo. Viene sepolto in una fossa comune, in attesa di nuova collocazione.

In memoria dell’amico che, «in nome della fraternità», gli ha salvato la vita, «di nascosto e senza dirlo a nessuno», Levi chiama i suoi figli Lisa, Lorenza e Renzo. Il 7 giugno 1998 lo Yad Vashem lo inserisce nella lista dei Giusti tra le Nazioni. Il sindaco di Fossano, Giuseppe Manfredi, gli dedica una lapide commemorativa in viale Alpi. Al termine di un suo scritto chiosa: «Siamo passati di fronte a un uomo (…) serrato nel suo dolore senza fine, e non l’abbiamo capito; gli passavamo accanto, ed era per tutti noi un uomo qualunque (…), ma oggi anche i fossanesi conoscono. In ritardo, ma sempre ancora in tempo: grazie, Lorenzo!».

di Roberto Rosano