Nella vita di santa Gianna Beretta Molla raffigurata dall’artista Serena Moroni

Il gesto di chi dà senza voler ricevere

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27 aprile 2020

Il 29 aprile 2005 l’inaugurazione di una vetrata nell’ospedale di Busto Arsizio


L’occasione per ricordare Gianna Beretta Molla è la visita alla chiesa dell’Annunciazione dell’ospedale di Busto Arsizio, in provincia di Varese. Un piccolo e accogliente spazio situato al piano terra dell’attuale padiglione Ostetricia e Ginecologia. Tra le ventisei vetrate — in gran numero con soggetti femminili — ve n’è una dedicata a questa donna lombarda (4 ottobre 1922 - 28 aprile 1962) beatificata nel 1994 e proclamata santa nel maggio del 2004. L’inaugurazione delle vetrate risale a quindici anni fa: 29 aprile 2005, all’indomani del giorno di memoria della santa. Qui ella è ritratta mentre abbraccia quattro bambini; sullo sfondo le montagne della Valle d’Aosta. I quattro bambini sono i suoi figli anche se ella non poté accompagnare la crescita dell’ultima nata poiché proprio questa gestazione e poi il parto furono per lei fatali. Morì infatti pochi giorni dopo aver partorito Gianna Emanuela.

Una storia dai tratti normali e insieme straordinaria la sua, al cui profilo più volte abbiamo ripensato anche grazie alla conoscenza del compianto monsignor Antonio Rimoldi, il docente di Storia della chiesa che ha curato e seguito il processo di beatificazione, raccogliendo ampio materiale documentario, in gran parte pubblicato (significativo il testo a cura sua e di Mario Picozzi e Maria Teresa Antognazza, Gianna Beretta Molla. La vita di famiglia come vocazione, Edizioni San Paolo 2007). Lasciamo ai lettori la narrazione della vicenda biografica di Gianna, che la vede nascere in una famiglia molto numerosa e di profonda fede cristiana; affrontare non facili passaggi di studio; laurearsi in medicina e specializzarsi in pediatria per poi esercitare la professione medica in un ambulatorio lombardo, a Mesero, in provincia di Milano. Quindi avviene il matrimonio con l’ingegner Pietro Molla cui seguirono le esperienze sia della maternità sia di due aborti per cause naturali.

Di lei, accanto a evidenti segnali di vivacità intellettuale e di profonda sensibilità sociale, artistica e soprattutto religiosa, chi ha curato la biografia ha evidenziato la convinta attenzione agli ultimi e ai più deboli. Attenzione coltivata, amata e descritta da lei stessa, fin da ragazzina, in pagine di diario e lettere rivolte a parenti e amici. L’abitudine alla scrittura — un tratto semplice, non sempre precisa nella datazione, né corretta — si mantiene vitale nel tempo. Sono testi risalenti a esperienze socio-culturali molto lontane dall’oggi. Inevitabilmente si colgono espressioni e contenuti che risentono di una visione di chiesa, famiglia e del mondo femminile non allineati al presente. Tuttavia proprio la cura per il diario ha consentito di rintracciare un filo prezioso capace di collegare frammenti di vita e soprattutto dar senso a un gesto finale sorprendente e assieme profondamente sentito. Un gesto che si può rileggere alla luce di importanti riflessioni sul sacrificio su cui la letteratura filosofica francese laica del secolo scorso ha insistito (G. Bataille, J.L.Nancy): quel gesto proprio di chi dà senza ricevere, che crea per mezzo della perdita e che è così strettamente congiunto al sacro.

La gestazione dell’ultima figlia di Beretta Molla si rivelò difficile fin dal secondo mese quando venne asportato un fibroma uterino, intervento eseguito per espresso desiderio della madre e che consentì la prosecuzione della gravidanza. Questa fu portata a termine pur tra obbligati momenti di riposo e di degenza ospedaliera. Importanti i suoi scritti di questi mesi insieme alla testimonianza del marito che la ricorda comunque attiva e partecipe nei confronti dei suoi famigliari e dei suoi malati. Riferisce Pietro Molla: era però assorta, spesso silenziosa e volta a «riordinare cassetti e armadi, oggetti personali, come per un lunghissimo viaggio». Evidente la preoccupazione soprattutto vissuta tra sé e sé. E nel dialogo interiore con Dio, di cui la preghiera costante era significativo segnale. Sempre in questi mesi non mancò ad alcuni appuntamenti mondani e in una lettera scrisse della sua «intenzione, dopo la nascita del quarto figlio, di rinnovare il guardaroba».

Da medico, conosceva molto bene il pericolo che stava affrontando ma ella non ebbe dubbi: «Se doveste decidere fra me e il bimbo, nessuna esitazione: scegliete — e lo esigo — il bimbo. Salvate lui». Così ricorda il marito. Cartelle cliniche e relazioni del medico (che eseguì un obbligato parto cesareo) segnalano la sfavorevole condizione ginecologica che portò a una setticemia peritoneale e quindi alla morte della donna.

Nella cappella di Busto Arsizio rintracciamo un altro filo: nella sua vetrata Gianna Beretta Molla è legata, con un nastro dorato, alle immagini delle donne che appartengono alla genealogia di Cristo, sia dell’Antico (Tamar, Ruth, Betsabea...) che del Nuovo testamento (Anna, Maria, Elisabetta) e ai santi la cui testimonianza ha dato origine all’opera di tanti religiosi, benefattori e operatori di questo Ospedale, figure importanti dell’assistenza ai piccoli e agli ultimi come Giovanna Antida, Vincenzo de Paoli, Giuseppe Moscati, Giovanni di Dio e Madre Teresa di Calcutta. Essi sono preceduti, nelle vetrate del corridoio d’ingresso, dalle varie fasi costruttive nella storia dell’Ospedale e dai suoi benefattori. Serena Moroni ha raffigurato la santa anche in altre sue opere: in un pannello eseguito per la cappella dell’Oratorio di Borsano e tra i santi del ventesimo secolo per la vetrata dell’abside della chiesa parrocchiale di San Michele a Magnago.

Scrive la Moroni in un suo testo del luglio 2017: «Nella cappella dell’ospedale di Busto l’ho voluta insieme a tutti i suoi figli, in un’immagine che solo nella visione di fede è perfettamente realistica; da dietro li tiene tra le proprie braccia come un luminoso angelo. Il paesaggio raffigura un luogo dove spesso la famiglia andava a trascorrere le vacanze; il verde dei pini e il grigio delle montagne danno luminosità all’abito giallo e rosa, sintesi visiva di quello spesso visto nelle sue fotografie. I suoi bambini sembrano non essere perfettamente consapevoli della presenza della mamma. Solo la bimba a sinistra, Mariolina, la guarda. Due anni dopo la morte di Gianna questa sua figlia la raggiungerà in cielo all’età di sette anni: l’ho voluta rappresentare in misteriosa comunicazione con lei».

La chiesa dell’Ospedale divenne chiesa ospedaliera nel 1991, quando la chiesa di San Giuseppe, prima chiesa dell’Ospedale fu elevata a parrocchia. In origine era la cappella del reparto di ostetricia, uno spazio strettamente collegato nella previsione di consentire la celebrazione del battesimo ai neonati, sacramento allora celebrato prima delle dimissioni di mamma e bambino. L’artista Serena Moroni ricevette l’incarico di rifare le vetrate nel settembre 2003 e vi si dedicò nel biennio successivo. Tema da svolgere: l’amore alla vita e la carità cristiana verso gli ammalati e i sofferenti testimoniati dalla storia della salvezza. Un lavoro che la stessa Moroni ci riferisce impegnativo e accompagnato da sue dolorose vicende personali. Anche queste ultime hanno sollecitato il suo pensiero nel disegnare personaggi — compresa Gianna — che andava ritraendo per questa quadreria fatta di vetri luminosi e smalti colorati. Volti e figure di donne e uomini che ci piace accomunare con questo nome: amiche e amici di Dio.

di Antonella Cattorini Cattaneo