Il dolore non ha misura

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09 aprile 2020

Dalla splendida biografia che Nino Barbantini dedica all’amico Gaetano Previati sappiamo che nell’autunno del 1901 l’artista «ordinò una grossa croce massiccia e quattordici telai (...) lavorò senza posa e senza respiro fino alla primavera seguente (...) e per non distrarsi dalla meditazione costante del dolore e della morte di Gesù, aveva la grossa croce davanti agli occhi e ogni tanto se la caricava per sentire come aveva dovuto pesare sulle spalle gracili e malate di Gesù».

Poche righe che restituiscono lo spirito da cui nasce la potente e magnifica Via Crucis oggi conservata nei Musei Vaticani, realizzata senza committenza né destinazione. Previati aveva affrontato le storie della Passione numerose volte, ma in questa, che può considerarsi un’opera unica e indivisibile, egli intensifica radicalmente il suo linguaggio pittorico. Sceglie di ridurre l’inquadratura, di eliminare ogni dettaglio, e fa dei volti e delle espressioni i veri protagonisti del racconto sacro. Una “zoomata emotiva” che dialoga con la tecnica filmica, imponendo all’osservatore una crescente partecipazione.

Colpisce inoltre nell’impostazione dell’intera serie il ruolo della croce: portata in primo piano domina prepotentemente le scene, da esse non contenuta perché non si può attribuire “proporzione” a uno strumento di sofferenza e di morte. Il dolore, ricorda Previati, non ha misura.

Nell’Ecce Homo il cielo ha i colori dell’alba e la luce scivola sulla colonna e svela il corpo di Gesù, gli occhi chiusi, il capo coronato di spine, le mani legate, la veste rossa abbassata sui fianchi per meglio infliggere le torture. È assorto, attendendo il destino che deve compiersi.

Il sole è più alto quando Gesù è caricato della croce e si avvia lungo il pendio del Golgotha: il corpo, ancora vigoroso davanti alla colonna, è ora avvolto nella clamide rosso fuoco. Il colore dilaga verso la parte alta della tela, lambisce la capigliatura, e il legno della croce è fatto delle stesse pennellate del cielo.

Il giorno avanza inesorabilmente aumentando il contrasto con la parte inferiore delle tele che rimane in ombra. Sotto il peso dell’enorme croce Gesù cade una, due, tre volte (Stazioni III, VII, ix ): il suo volto si deforma, il corpo si contorce, le mani perdono la presa. È la deformità del dolore che si espande, inevitabilmente, su tutto ciò che lo circonda. I volti della Madre (Stazione iv), della Veronica (Stazione vi), delle Pie donne (Stazione VIII), di quanti lo seguono, insultandolo o piangendolo, non hanno fisionomie, toccando vertici assoluti come quella indecifrabile e indistinta presenza che sbuca sulla sinistra della VII stazione, Gesù cade per la seconda volta, quasi una risonanza de L’Urlo di Munch, la cui prima versione è del 1893.

Quando viene spogliato della veste, Gesù è irriconoscibile. Il giorno diventa sera: la luce del tramonto è quella di un cataclisma, poi la morte. Nella Crocifissione Previati inserisce i due ladroni, escludendo il gruppo delle Marie e di Giovanni. Il capo di Gesù è rovesciato all’indietro e il corpo spezzato dalla sofferenza e dalla morte. La Deposizione è un’opera architettonica, astratta. Le braccia arcuate del corpo senza vita, sorretto dalla Madre che intreccia le dita delle mani per sostenere il peso, disegnano un arco, ribadito dalle figure di Maria e di Maddalena, il cui contorno si staglia sul cielo che si sta spegnendo. È ormai notte quando il corpo di Gesù è pronto per essere sepolto. Nella Sepoltura Previati concentra il suo sguardo sul dolore silenzioso di Giuseppe D’Arimatea e Nicodemo, che stanno deponendo il cadavere alla luce giallastra di una lampada a olio.

In queste quattordici tele Previati ha forzato le potenzialità espressive e patetiche del linguaggio divisionista, per poter affrontare, con intensità mistica, i Misteri della Passione, il dolore tutto umano del Cristo nel Suo sacrificio per la nostra redenzione.

 

di Micol Forti