Narrare il Male (e il Bene)

I labirinti della notte

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30 aprile 2020

«Chi si è assunto il compito di abbattere il vizio e di vendicare in modo esemplare presso i suoi amici l’etica, la religione e le leggi della società civile, deve additare il vizio integralmente, nell’immensità del suo orrore, e costringere l’umanità a constatarne l’immane grandezza, deve entrare nei labirinti della notte, non deve esitare a percorrerli, deve imporre a se stesso di penetrare fino in fondo nel cuore dei sentimenti che suscitano nel suo spirito una cupa avversione».

Nessuno, meglio di Friederich Schiller nella prefazione a I Masnadieri (1781), ha saputo cogliere i termini della questione: è lecito raccontare il Male? E se sì, questo racconto deve porsi dei limiti etici, politici, religiosi? Schiller rivendica quella che potremmo definire la «necessità» di confrontarsi con il lato oscuro, di «entrare nei labirinti della notte». Non foss’altro perché «i buoni risaltano solo in opposizione ai malvagi, e la virtù si esalta a dismisura solo se la si accosta al vizio o se gli viene contrapposta». Da qui la «necessità», se del mondo reale non si vuole fornire «un’idealistica contraffazione ad uso e consumo della società».

Ma visto che ogni narrazione, dalla pittura rupestre al web, segue regole pressoché immutabili, quando parli del Male, il Male entra prepotentemente in scena, e spesso ne diventa il protagonista. Ed ecco i tre rischi di una simile scelta, lucidamente esposti da Schiller: ferire i sentimenti del pubblico, trasformare il malvagio in eroe, essere additato come «cattivo maestro». D’istinto, verrebbe da ribattere: la libertà creativa va messa al primo posto. L’artista dovrebbe essere libero di operare al di fuori di condizionamenti di tipo etico, politico, religioso. Flaubert, Genet, Bertolucci, Pasolini, i blacklisted di Hollywood, gli scrittori e poeti tacitati o eliminati dal terrore staliniano, i pittori “degenerati”: sono tutti esempi di autori perseguitati per ragioni di tipo etico e politico.

Oggi, nei Paesi liberi, pressoché ogni forma di espressione artistica è inserita in grandi strutture produttive — piattaforme, network — o comunicative: i social che, a differenza dei regimi di un tempo, non impongono modelli culturali, ma semmai li suggeriscono. Qui a dominare il gioco è il mercato — qualunque sia il senso che si vuole attribuire a questa parola così indeterminata — con i suoi algoritmi. Si potrebbe dire: ma oggi nessuno vieta di raccontare il Male. Navighiamo, anzi, in un oceano di eroi negativi. Nessuno più finisce ai ceppi perché ha raccontato la storia “sbagliata”: al massimo, finisci fuori mercato o i “social” ti fanno la guerra. Il che non è piacevole, ma è sempre preferibile alla galera. Non per questo la libertà creativa non è costantemente criticata. E le parole d’ordine sono quelle di sempre. Tuttavia, rivendicare la libertà d’espressione è dunque sacrosanto, ma non sufficiente. C’è bisogno di approfondire.

Schiller ha una sua teoria sul fascino dell’eroe malvagio. Ne siamo soggiogati perché riconosciamo in lui la distorsione dell’etica: più un essere umano è dotato di grandi capacità, tanto più colpevole è l’abuso che egli ne fa. Ne deriva, da parte nostra, un moto di ripugnanza, ma anche di ammirazione. Un cattivo totale ci indispone tanto che non vogliamo saperne di lui. Mentre «in preda al fascino e all’orrore, seguiamo nei suoi caotici labirinti il Satana di Milton. La Medea dei drammi classici è sempre degna d’ammirazione, nonostante tutti i suoi orrori, e il Riccardo di Shakespeare suscita una profonda ammirazione nel lettore che tuttavia lo respingerebbe con astio se gli comparisse, vivo, davanti agli occhi». E ancora: «Quando io mi assegno il compito di rappresentare gli uomini nella loro assoluta integrità, devo essere disposto ad accettarne anche i lati positivi, che non sono assenti nemmeno nella creatura più depravata. Quando devo prevenire i lettori contro la tigre, non devo censurarne lo splendido manto variegato senza privare per questo la tigre delle sue caratteristiche fondamentali».

Perciò, per Schiller, il problema di essere considerato un «cattivo maestro» non riguarda tanto l’artista, quanto il pubblico. Solo l’istruzione, la cultura, la conoscenza potranno compiere il miracolo ed evitare che chi narra il Male sia scambiato per un adepto del Male: «Che tutti gli amici della verità si mettano insieme per insegnare ai loro concittadini dal pulpito e dalla scena…». Compito davvero arduo, in tempi di social.

Ma che cosa, in fondo, può ferirci, quando ci troviamo davanti a un racconto del Male? Qui soccorre un altro esempio illustre, Rigoletto di Verdi, ispirato da un dramma di Victor Hugo. La censura intervenne, si parlò di immoralità e depravazione. Il problema non stava nel regicidio — il gobbo attenta al sovrano — o nella critica all’abisso morale delle classi dominanti, e nemmeno nello stupro di una povera fanciulla. Ciò che si riteneva intollerabile era, da un lato, che il deforme Rigoletto fosse al contempo maestro di turpitudini e tenero padre, e, dall’altro, che Gilda, vittima dello stupro, provasse pietà per lo stupratore. Era, in una parola, la complessità a turbare gli animi.

Eccoci dunque al punto: se racconti il Bene da una parte, granitico e compatto, e dall’altra il Male, feroce e pervasivo, se tracci un confine netto e invalicabile, tutto è molto più semplice, sparisce ogni traccia di ambiguità, e non c’è nessun pericolo che si lasci campo al «cattivo esempio». Ma chi si sentirebbe, oggi, di affermare che le sublimi melodie verdiane istighino al male e alla depravazione? E non è solo una questione legata all’evoluzione dei costumi. È la storia del rapporto complicato, ma ineludibile, fra la luce e le tenebre. La storia dell’impasto del quale siamo composti noi tutti esseri umani. La storia della battaglia che ogni benedetto giorno si combatte dentro di noi. Per dirla coi versi di Robert Browning, «è il bordo vertiginoso delle cose che ci attrae / il ladro onesto, il tenero assassino / l’ateo superstizioso, la donna perduta / che si riscatta l’anima amando nei romanzi francesi alla moda / li guardiamo mantenere un incerto equilibrio / fra il filo sospeso e la caduta».

È una storia dal finale imprevedibile, consegnato alla tensione di una scelta continua. Vincerà la luce? Prevarranno le tenebre? Spesso, proprio chi racconta le storie meno edulcorate, quelle più nere, «si è assunto il compito di abbattere il vizio», e dunque si augura il trionfo della luce, e non chiude mai la porta alla speranza. Ma sa anche che non può esserci speranza se prima non si entra nei labirinti della notte.

di Giancarlo De Cataldo