Ancora contenuta la diffusione della malattia ma preoccupano la tenuta del sistema sanitario e le ricadute economiche

Di fronte alla crisi del coronavirus l’Africa chiama alla solidarietà globale

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21 aprile 2020

Sono trascorsi oltre due mesi da quando venne diagnosticato il primo caso di infezione da coronavirus in Africa. Lo annunciò il 14 febbraio scorso il ministero della salute egiziano, precisando che si trattava di un paziente straniero. Ebbene, allo stato attuale, stando agli ultimi dati ufficiali del Centro di controllo delle malattie sotto l’egida dell’Unione africana (Cdc Africa), diramati il 21 aprile, sono stati registrati a livello continentale 1.158 decessi causati dal covid-19, 23.505 contagi e 5.833 ricoveri. Da rilevare che, volendo confrontare questi numeri con la popolazione africana — oltre un miliardo e 300 milioni — non saremmo ancora di fronte a quello scenario catastrofico che tutti, ancora oggi, ritengono non solo possibile, ma probabile. Si teme naturalmente che i contagi possano essere molti di più per la debolezza del sistema sanitario continentale che, nelle condizioni attuali, non è in grado di monitorare le possibili catene di contagio locali capaci di scatenare processi di moltiplicazione e dunque di propagazione della pandemia. Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) Tedros Adhanom Ghebreyesus, lo scorso weekend, ha lanciato l’allarme: «Nell’ultima settimana i casi confermati di coronavirus in Africa sono aumentati del 51 per cento e il numero delle morti accertate del 60 per cento», ma in mancanza di kit per i test «è verosimile che i numeri siano più alti».

Questo, in sostanza, significa che forse bisogna prepararsi al peggio. La principale preoccupazione riguarda non solo la diagnostica, ma soprattutto la mancanza di farmaci impiegabili e di ventilatori polmonari: nella Repubblica Centrafricana, ad esempio, risultano essercene solo tre. Si tenga presente che stiamo parlando, in termini generali, di paesi segnati da un basso rapporto di medici per popolazione — in media un medico ogni 5.000 persone — e da una spesa sanitaria media pari ad appena il 5 per cento del già scarso Prodotto interno lordo (Pil) continentale. Dunque, la capacità di gestione e di risposta del sistema sanitario, a livello sia urbano sia rurale, è ritenuta scarsa e inadeguata.

Ciò non toglie che qualcosa non torni. Infatti, se da una parte la gestione clinica dei pazienti contagiati e la diagnosi laboratoriale, a livello continentale, sono problematiche, dall’altra vi è sempre stata la convinzione che l’allarme sarebbe scattato, soprattutto nelle strutture ospedaliere urbane, in conseguenza dell’aumento dell’incidenza dei ricoveri. E al momento, stando sempre al Cdc Africa, sono poco meno di seimila in un continente tre volte l’Europa. Da rilevare che in molte città africane, come Nairobi, Kampala, Lagos, vi sono innumerevoli baraccopoli con un’altissima densità di popolazione. Viene pertanto spontaneo domandarsi quali possano essere le ragioni che finora hanno evitato che si evidenziasse un picco dei decessi all’interno di questi agglomerati urbani, come anche negli ospedali. A ciò si aggiunga il fatto che in Africa, per ragioni economiche ed imprenditoriali, vi è una presenza considerevole di cinesi, alcuni dei quali avrebbero potuto veicolare il covid-19, prima ancora che il virus giungesse in Europa.

Potrebbero esservi forse almeno due elementi in grado di attenuare l’impatto del coronavirus in Africa. Anzitutto, il fatto che la letalità, così com’è stata registrata negli altri continenti, interessi prevalentemente la popolazione più anziana, mentre l’impatto è meno rilevante per le giovani generazioni. Considerando che in Africa oltre il 60 per cento della popolazione è sotto i 25 anni, gli effetti della pandemia dovrebbero rivelarsi più contenuti rispetto ad altre parti del mondo. A ciò si aggiunga una particolare predisposizione genetica delle popolazioni nilotiche e bantu a resistere maggiormente all’aggressione virale, anche se naturalmente la cautela è d’obbligo perché del covid-19 la comunità scientifica internazionale sa ancora troppo poco.

Ad esempio, proprio in Europa, si sta riscontrando che le problematiche cardiovascolari, anche in soggetti più “giovani” affetti dal virus, siano spesso alla base di complicazioni al decorso del quadro, anche indipendentemente dalla situazione respiratoria. Detto questo, è innegabile la resilienza delle popolazioni autoctone africane costrette a convivere con altre malattie endemiche come quelle tropicali neglette (Mtn) per non parlare delle tre “big ones”, cioè malaria, aids e tubercolosi, o di epidemie particolarmente gravi seppur territorialmente circoscritte come ebola, che tra 2013 e 2014 ha investito l’Africa occidentale (Liberia, Sierra Leone, Guinea) e, più recentemente, il settore nordorientale della Repubblica Democratica del Congo (Kivu e Ituri), con tassi di letalità intorno al 50 per cento.

Ma attenzione, non è tutto qui: l’Africa subsahariana è l’area geografica dove le cosiddette “fake drugs” (farmaci contraffatti) sono più diffusi: il 42 per cento dei casi rilevati a livello globale. Sebbene nel continente africano risulti ancora difficile avere un computo esatto delle fake drugs in circolazione, si ritiene che la percentuale sia compresa, a seconda dei paesi, tra il 30 e il 60 per cento del totale in commercio. Ecco che allora il coronavirus di cui sopra rappresenta davvero l’ultima di una lunga serie di sciagure per l’Africa. È evidente che la priorità per le autorità sanitarie nazionali deve rimanere quella del salvataggio delle vite umane e della protezione dei mezzi di sussistenza rafforzando i presidi ospedalieri e intraprendendo azioni rapide per scongiurare le interruzioni nelle catene di approvvigionamento alimentare.

E qui si apre il triste capitolo delle ricadute economiche della crisi sanitaria globale sul continente africano. In Africa, infatti, l’annunciata spinta recessiva per l’impatto del covid-19 avrà conseguenze molto più drammatiche che in ogni altra regione del mondo. A questo proposito la Banca mondiale (Bm), in un suo report pubblicato giovedì 9 aprile, ha ipotizzato che la crescita economica dell’Africa subsahariana possa contrarsi dal «+2,4 per cento nel 2019 al -2,1 per cento nel 2020», precisando che si tratterebbe della «prima recessione nel corso degli ultimi 25 anni». Considerando che il valore assoluto del Pil stimato per il 2019 dell’Africa risultava di oltre 2.400 miliardi di dollari — una cifra ancora molto bassa se paragonata a quella dell’Italia che per lo stesso periodo aveva una previsione di circa duemila miliardi — è evidente che lo scenario in Africa è drammatico. Sta di fatto che il crollo del turismo e delle esportazioni, la volatilità sulle piazze finanziarie internazionali del prezzo delle commodity (materie prime), petrolio in primis, stanno mettendo in ginocchio le economie nazionali africane. Stando sempre alla Bm, il coronavirus potrebbe generare nell’Africa subsahariana una crisi della sicurezza alimentare, con previsioni di contrazione della produzione agricola comprese tra il 2,6 per cento e il 7 per cento a seguito di blocchi commerciali. Su queste premesse si fonda la decisione, adottata dai Paesi del g20 di sospendere per un anno il debito dei paesi più poveri — tra cui figurano quelli africani — consentendo un risparmio complessivo di 20 miliardi di dollari. Tutta liquidità che dovrebbe essere investita, oltre che per contrastare la diffusione della pandemia, anche per mitigarne l’impatto della crisi economica.

Ma attenzione: non si tratta di cancellazione del debito. Infatti il denaro dovuto sarà spalmato nel tempo e comunque condizionerà non poco la ripresa del continente, assommandosi a quello pregresso. L’adozione inoltre di nuovi programmi di prestiti sottoscritti dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Bm pone lo stesso problema, soprattutto per quanto concerne il meccanismo di rimborso. È evidente che per i governi africani, al momento, la priorità deve rimanere quella di contrastare la pandemia, rafforzando i presidi ospedalieri e intraprendendo azioni rapide per scongiurare le interruzioni nelle catene di approvvigionamento alimentare. Ciò non toglie che fin d’ora, guardando all’Africa, occorre pensare al “dopo coronavirus” promuovendo scelte all’insegna della solidarietà globale, nei confronti in particolare, di coloro che vivono nelle periferie del mondo. Per dirla con le parole di Papa Francesco, questa solidarietà «se la viviamo, noi siamo nel mondo segno, sacramento dell’amore di Dio. Lo siamo gli uni per gli altri e lo siamo per tutti!».

di Giulio Albanese