In «La ragazza con la macchina da scrivere» di Desy Icardi

Detective di se stessa grazie a una Olivetti rossa

Particolare dalla copertina del romanzo edito da Fazi
16 aprile 2020

«Non era ciò che scrivevi, quanto piuttosto il contatto dei polpastrelli sui tasti freddi dell’Olivetti MP1 (...) a farti attraversare, con relativa calma, quei momenti oscuri non soltanto per l’assenza di lume». È con una macchina da scrivere rossa fiammante — gioiellino della meccanica del peso di appena 5 chili e 2 etti — che Dalia attraversa il Novecento. Inizia a lavorare nel 1936: ha tredici anni, un attestato di dattilografa e una lunga treccia castana che la sua amica Ester le taglierà prima dell’incontro con i datori di lavoro. E così, capelli ondulati all’altezza delle spalle, fissati i becchi d’oca, la ragazzina protagonista dell’ultimo romanzo di Desy Icardi, La ragazza con la macchina da scrivere  (Roma, Fazi Editore, 2020, pagine 366, euro 15) inizia il suo cammino nel mondo dei grandi.

Un mondo piuttosto tetro, viene da dire: un padre freddo, distante e ossessionato da regole e apparenze, una madre in fuga, un fascismo che si espande a macchia d’olio, sporcando molto di ciò che incontra, adulti presi dai loro piccoli ricatti ed egoismi quotidiani. Dalia che nei momenti critici esegue gli esercizi di dattilografia per rasserenarsi. Che vive in un mondo capace di offrire alle ragazze solo due alternative (rimanere agli ordini del padre o passare a quelli del marito) ma che cresce nutrendosi di quelle che la società degli anni Trenta considera letture da maschietto (Salgari, Stevenson, Swift, Dickens e Wilde: non ci sono più i soldi, quindi la ragazzina può leggere solo quelli del  padre da bambino); Dalia che fugge da giovane e fugge da anziana, camminando sempre con lo stesso passo deciso. È una Dalia ben avanti negli anni, colpita da un ictus, a ricostruire la sua stessa storia, in parte smarrita a causa di quello che lei chiama «piccolo incidente», perifrasi molto più garbata e rassicurante del freddo termine medico. Sorta di detective di se stessa, per ritrovare il bandolo le sono indispensabili gli oggetti, e la sua Olivetti su tutti, perché nel caso di Dalia sono le dita, o più precisamente i polpastrelli a chiarire ciò che si è offuscato. I ricordi, infatti, non si sono dissolti: sopravvivono nella sua memoria tattile e possono essere liberati esclusivamente dal contatto con i tasti della sua Olivetti rossa. E così, affidandosi alla macchina da scrivere, Dalia ripercorre la propria esistenza. Gli amori, i dispiaceri e i mille espedienti per sopravvivere soprattutto durante gli anni della guerra, riemergono dal passato restituendole un’immagine di sé viva e sorprendente: la storia di una donna capace di superare decenni difficili procedendo sempre a testa alta, con dignità e buonumore.

Dalia non ha mai vestito i panni della Piccola italiana grazie al padre riuscito sempre a tenerla fuori da quella che considerava solo un’attività disdicevole. E così, se le nuove generazioni si domandano come sia stato possibile esaltarsi tanto alle parole di Mussolini, Dalia invece si ritrova spesso a chiedersi come abbia fatto a rimanere immune dal contagio.

Tra i personaggi che circondano la protagonista — molti dei quali la accompagneranno nei decenni — spicca l’avvocato appassionato di letteratura, figura rara perché capace di trasformare il suo amore per i libri in amore per il prossimo. Perché quel buffo signore che misura il tempo in pagine lette, o non lette (l’invito a prendere un caffè? Due o tre capitoli di buona lettura) non si estrania dal reale a causa dei libri. Tutt’altro: sono proprio i libri e le letture, infatti, a immergercelo ben bene. Sarà cruciale per Dalia l’avvocato, quest’uomo convinto che se Emma Bovary fosse stata una donna reale e se lui avesse avuto l’onore di incontrarla (e di consigliarle buone letture, invece dei «romanzetti d’amore letti in gioventù»), la poveretta non si sarebbe mai suicidata.

È un romanzo sulla memoria  La ragazza con la macchina da scrivere. Ma è soprattutto un romanzo sulla capacità del lavoro di non essere solo una via per sopravvivere, ma anche per vivere. Per trovare se stessi da giovani, e per ritrovarsi da anziani.

di Silvia Gusmano