LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
In un nuovo mondo unito dagli oceani informatici la società va ripensata a partire dall’equità

Costruire il futuro
con un velo
di (sana) ignoranza

maxresdefault.jpg
22 aprile 2020

Nella spasmodica ricerca di contenere il dilagare della pandemia, sempre più nazioni, inclusa l’Italia, stanno approvando decreti emergenziali volti a ridurre il più possibile i contatti sociali dei loro cittadini. Si stima che al mondo ci siano 7,79 miliardi di persone. Secondo una stima dell’agenzia France-Presse (l’Afp è un’agenzia di stampa francese fondata nel 1835, tra le più importanti e autorevoli al mondo), al 30 marzo 2020 più di 3,38 miliardi di persone nel mondo erano chiuse in casa o sottoposte comunque a limitazioni di movimento o a misure di isolamento sociale. Si tratta in pratica di quattro persone su 10, il 43 per cento della popolazione della terra.

Se la speranza, per molti, è quella di un rapido ritorno alla normalità, è lecito chiedersi cosa aspettarsi per il futuro. Come sarà il “dopo”? Questo “domani” è da virgolettare, perché non si tratta solo di individuare un orizzonte temporale che segnerà la fine dell’emergenza, bensì di capire se quello che ci aspetta debba invece racchiudersi nell’equivalente del termine “post-”, includendone tutte le ambiguità. Il Sars-Cov-2 può aprirci a un futuro in cui l’uomo vivrà una fase di benessere, pace e serenità che si configuri come post-bellica, post-patologica o post-povertà, oppure può condurre a una soglia in cui il “post-“ collassa nel significato di “dis-“, creando un contesto dis-umano che nega ogni forma di valore condiviso e di comunione sociale.

Fare i conti con questa ambiguità rivela la necessità urgente di pensare il “dopo”.

In un seminario del 2006, a Ginevra, i membri fondatori del progetto Bridging the Gap presentarono uno scenario che postulava una crisi finanziaria originata negli Stati Uniti che avrebbe provocato una recessione globale con conseguenze economiche dolorose per l’Europa. Molti partecipanti al seminario — studiosi e responsabili delle politiche — reagirono increduli: «È semplicemente impossibile»... «Non potrebbe mai accadere»... «È una perdita di tempo parlarne»... Quello che è accaduto dopo, come sappiamo, li ha smentiti. La grande recessione è la crisi economica mondiale verificatasi tra il 2007 e il 2013, scoppiata negli Stati Uniti d’America nel 2006 in seguito alla crisi dei subprime e del mercato immobiliare, innescata dallo scoppio di una bolla immobiliare che ha prodotto a catena una grave crisi finanziaria nell’economia americana.

La recessione ha poi gradualmente assunto un carattere globale, spinta da meccanismi finanziari di contagio, e perdurante con una spirale recessiva che si è ulteriormente aggravata in diversi Paesi europei. Quali sono state le conseguenze? La crisi ha prodotto profondi risvolti sociali sulle famiglie, provocando un incremento delle condizioni di povertà delle persone, aggravate da una lenta ma costante diminuzione di potere d’acquisto reale dei redditi.

La crisi ha avuto anche delle ripercussioni mondiali che hanno fatto tremare Stati, equilibri geopolitici e grandi gruppi industriali e finanziari. Le analogie con la situazione attuale sono evidenti. Per non procedere in maniera analoga, è necessario fare tesoro di quanto accaduto, e comprendere che la sfida attuale è dare valore all’analisi dello scenario. Il valore del delineare scenari, va sottolineato, è vero e utile se non commettiamo l’errore di scambiare gli scenari stessi per previsioni, profezie o simulazioni.

Compito degli scenari possibili è altro: essi servono come strumenti preziosi per illustrare possibili stati futuri del mondo combinando teoria (scienze sociali, empiriche, ecc.) e narrazione (immaginazione, fantasia e storytelling...) in modi rigorosi e risonanti per nutrire e promuovere il pensiero creativo. La definizione di uno scenario serve per permettere alle persone coinvolte di utilizzare al massimo le proprie competenze e la propria immaginazione per sviluppare un pensiero creativo in grado di affrontare le incertezze, le sfide e il cambiamento, e di formulare possibili risposte. Inoltre, uno scenario permette di comunicare a un gruppo di persone idee, valori e modalità di risposta che diventino “cultura” del gruppo stesso.

Al di là di quale scenario potrà descrivere con maggiore accuratezza quello che ci attende penso che possiamo già evidenziare alcune domande che ci permettono di compiere un discernimento sul presente che viviamo e interrogarci sul dopo che vogliamo realizzare senza aspettare che sia qualcun altro a decidere e impostare per noi quello che accadrà.

In primo luogo, sempre di più si assiste a tentativi autarchici delle diverse nazioni. Ci si deve chiedere allora cosà rimarrà globale? Cosà sarà solo locale? Nascerà un nuovo glocal? Avrà ancora senso parlare di mercato comune? I modelli economici basati sulla delocalizzazione e la produzione nei paesi meno sviluppati di alcuni prodotti sono alla base delle carenze di alcuni prodotti e beni essenziali per affrontare l’attuale emergenza. Come ripensare una nuova distribuzione globale della produzione e nuovi modelli industriali? Il mondo che abbiamo creato negli ultimi anni si basa su una logistica che garantisce un movimento di merci globale e altamente controllato e monitorato. Come questo evento farà cambiare tutto questo? Come interconnettere il mondo in modo che siano criteri etici e di equità e non nuovi modelli di dominio a generare le nuove autostrade o vie della seta? Fino a tre anni fa, la produzione di device elettronici in Cina era scontata. Questo è cambiato radicalmente ora in un’era di guerre commerciali e di coronavirus. In base alla nuova realtà, i produttori di elettronica di tutto il mondo sono attivamente alla ricerca di modi per diversificare le loro catene di approvvigionamento e ridurre la loro dipendenza da ogni singolo paese, non importa quanto sia attraente. Non c’è mai stata tanta angoscia tra i fornitori. E non c’è da meravigliarsi, perché secondo la maggior parte degli analisti, il mondo sta affrontando alcuni dei più grandi shock alla produzione da quando i produttori di Taiwan — responsabili dell’assemblaggio della maggior parte dei device elettronici del mondo — hanno iniziato a levare le tende in massa andando verso la Cina 30 anni fa.

Questa ultima tendenza è iniziata con la battaglia tariffaria Usa-Cina, che l’anno scorso ha raggiunto un punto di ebollizione. Ora l’inizio della pandemia di covid-19 ha rapidamente accelerato quei piani e incoraggiato i manager a parlare apertamente dei loro sforzi per un esodo. Indipendentemente dal fatto che scelgano l’India, il Vietnam o qualsiasi altro paese, è chiaro che i produttori di elettronica hanno superato il punto di non ritorno nella loro graduale migrazione dalla Cina. I nuovi trasporti forse non saranno basati più sui flussi di turismo ma sulla necessità di materie prime. Si pensi a un paese come la Svizzera che non ha grano: saranno necessità come questa a determinare i flussi di mobilità e gli scambi economici? Nasceranno nuove forme di alimentazione? Nuove tradizioni culinarie e nuovi piatti? Se la produzione di beni primari e le materie prime sono ora in paesi meno sviluppati, questo vorrà dire che questi paesi avranno un nuovo peso nello scenario globale?

Con la pandemia abbiamo assistito al fatto che tutti i servizi che abbiamo privatizzato e/o liberalizzato nella maggior parte dei casi sono come “evaporati” (si pensi a Ryanair che improvvisamente ha interrotto tutti i viaggi da e per l’Italia, o Flixbus che ha sospeso tutti i servizi lasciando disconnesse intere regioni non toccate dalle ferrovie regionali). Che cosa dobbiamo liberalizzare e cosa dobbiamo garantire come pubblico in futuro per evitare di avere implosioni nel vivere sociale?

Cosa vuol dire costruire un domani giusto? Che cosa significherà implementare una giustizia sociale? Forse qui conviene ricordare l’argomento intuitivo che Rawls adduce nella sua teoria della giustizia. L’argomento intuitivo a favore della teoria della giustizia come equità viene presentato da Rawls nel secondo capitolo di “Una teoria della Giustizia”; l’argomento intuitivo riguarda sostanzialmente il secondo principio della teoria, quello di differenza, che mira a modellare una distribuzione giusta di risorse, una volta garantita, con il primo principio, l’ascrizione delle eguali libertà fondamentali a ciascuno.

Libertà ed eguaglianza non sono valori confliggenti, l’equità distributiva mira anzi a rendere eguale il diseguale valore delle eguali libertà. Per Rawls il principio di efficienza (che risale a Vilfredo Pareto) è da rimpiazzare con il principio di differenza, specificando l’interpretazione dell’eguaglianza democratica: la priorità è data al punto di vista di chi è più svantaggiato nella distribuzione delle dotazioni iniziali, naturali e sociali.

Si esprime così una “fraternità democratica”, basata su un’idea di reciprocità o solidarietà di cittadinanza. Solo sullo sfondo di istituzioni modellate dal principio di libertà e dal principio di differenza è possibile che una società superi il test della giustificazione etica per chi vi ha una vita, con gli altri, da vivere. Con l’idea di accettabilità unanime Rawls tiene presente la procedura che dà la precedenza a coloro per i quali lo schema di cooperazione è meno accettabile: solo se l’accettazione è ottenuta da chi è più svantaggiato è possibile proseguire con il test sino a pervenire a chi è più avvantaggiato. Se vogliamo pensare e immaginare il “dopo” non possiamo allora escludere dal nostro pensiero e dalla nostra immaginazione il concetto dell’accettabilità unanime. Ciò significa che ora, a differenza che in passato, la giustizia come equità «si presenta non come una concezione della giustizia che è vera, ma come una concezione che può fare da base per un accordo politico informato e volontario tra cittadini concepiti come liberi ed eguali».

Rawls propone di utilizzare “il velo d’ignoranza”, una metafora filosofica che si rifà al pensiero politico dei filosofi contrattualisti Thomas Hobbes, John Locke e Immanuel Kant, per rappresentare un’ipotetica situazione in cui l’esperienza di pensiero fa astrazione di ogni interesse di tipo particolare, individuale o privato per giungere al fondamento di una futura società giusta. Abbiamo bisogno di immaginare il “dopo” con un velo d’ignoranza. La teoria di Rawls consiste nel compiere un esperimento mentale di questo tipo: immaginiamo che un gruppo di individui, privati di qualsiasi conoscenza circa il proprio ruolo nella società, i propri talenti, il proprio livello intellettuale e culturale, le proprie caratteristiche psicologiche e i propri valori, viva in un velo d’ignoranza, ma sapendo comunque da individui razionali che sanno come funzionano le società e i fatti che le governano e quali sistemi economici esistono — situazione di fondo questa che egli chiama original position (“posizione originaria”) — può scegliere secondo quali principi deve essere gestita la società in cui vivono. Ebbene, in condizioni simili, sostiene Rawls, anche se fossero totalmente disinteressate le une rispetto alla sorte propria e delle altre, le parti sarebbero costrette dalla situazione a scegliere due determinati principi di giustizia. Il primo: ogni persona ha un uguale diritto alla più estesa libertà fondamentale, compatibilmente con una simile libertà per gli altri. Il secondo: le ineguaglianze economiche e sociali sono ammissibili soltanto se sono per il beneficio dei meno avvantaggiati.

Una società giusta nel “dopo” deve essere quindi uno schema di cooperazione stabile nel tempo e modellato da un principio base di reciprocità di cittadinanza. Allora quale società potremmo unanimemente costruire come giusta e quindi stabile e in grado di garantire al nostro “dopo” un futuro? Un grande ruolo potrebbe averlo l’automazione. I robot e i dispositivi software intelligenti potranno permetterci di vivere maggiori distanze sociali. Ma quali effetti sul lavoro? Forse la prima automatizzazione e i primi veicoli autonomi non li vedremo nelle città ma nei campi, per coltivare e raccogliere quei prodotti di cui avremo bisogno.

Il mondo della digitalizzazione e dell’informazione avrà un ruolo chiave. Come i mari una volta. Il digitale sarà un nuovo mare da conquistare  e contendersi o luogo di rotte e scambi pacifici?

Bisognerà anche capire chi viene ascoltato. Il mondo ha bisogno di guide spirituali. L’attualità della fragilità e della morte chiedono mediazioni spirituali ma queste dovranno mediare con la scienza e mediare la scienza nelle indicazioni che daranno per orientare le coscienze e aiutare gli animi. La speranza è «il presente del nostro futuro» parafrasando Tommaso d’Aquino. Già, vive chi spera! Allora per il “dopo” vivere e sperare sono gli elementi fondamentali per non subire un domani ma costruirlo come frutto di un discernimento nell’oggi.

di Paolo Benanti