Il vescovo di Dori parla della situazione in Burkina Faso uno dei paesi africani più colpiti dalla pandemia

Con coraggio si lotta per la vita

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17 aprile 2020

Nonostante il Burkina Faso sia uno dei paesi africani più colpiti dal coronavirus — il cardinale arcivescovo di Ouagadougou, Philippe Nakellentuba Ouédraogo è risultato positivo al covid-19 — «è nel segno della speranza che la popolazione aspetta la fine della pandemia, così come l’avvenire di giorni migliori». E, in particolare, i cattolici locali «hanno fiducia in Dio, seguendo in questo anche la cultura religiosa africana che sa affidarsi sempre e innanzitutto a Dio». È quanto confida a «L’Osservatore Romano» il vescovo di Dori, monsignor Laurent Birfuoré Dabiré, spiegando che comunque «in Africa si lotta per la vita ma non si ha paura della morte». Commentando le misure adottate per arginare la diffusione del virus, il presidente della Conferenza episcopale del Burkina Faso e Niger teme che un rigido confinamento della popolazione possa «trovare un ostacolo proprio nel modo di vivere di una grande maggioranza della popolazione» burkinabé e suggerisce di «trovare una formula che si presti alle esigenze di vita» del popolo africano. Il presule non manca, infine, di ricordare che nella sua diocesi «si vive già una specie di confinamento a causa degli attacchi terroristici che hanno limitato notevolmente gli spostamenti e i raduni».

Il Burkina Faso è uno dei paesi africani più colpiti dalla pandemia da coronavirus: per quali motivi?

Il Burkina Faso ha registrato il suo primo caso di covid-19 con la contaminazione del pastore Mamadou Philippe Karambiri e di sua moglie, entrambi testati positivi il 9 marzo scorso. Erano appena rientrati dalla Francia, dove avevano partecipato, dal 17 al 24 febbraio, a una settimana di digiuno e di preghiera organizzata dalla Chiesa evangelica Porte Ouverte a Mulhouse, in Alsazia, uno dei principali focolai dell’epidemia in Francia. Prima di avvertire i primi sintomi che li hanno portati al ricovero in ospedale, sono stati accolti da una folla numerosa e molte persone si sono recate nel loro domicilio come si suol fare in Africa dove i contatti sociali sono frequenti e ravvicinati. Il virus si è allora propagato molto rapidamente, particolarmente a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, poi, nelle altre località. E la risposta, benché immediata, non è stata sufficiente per contenere la propagazione del virus a causa della mancanza di sufficienti mezzi a disposizione.

Quali sono le misure varate dallo Stato e dalle collettività locali? Sono accettate e rispettate dalla popolazione?

Le misure sono state prese gradualmente: inizialmente si è trattato di raccomandazioni di igiene, come lavarsi spesso le mani con il sapone o utilizzando soluzioni idroalcoliche, tossire o starnutire in un fazzoletto, evitare abbracci e strette di mano e rispettare la distanza interpersonale di almeno un metro nei luoghi di aggregazione. Poi sono state indicate le regole da seguire nei casi sospetti: immediato autoisolamento, con un numero verde a disposizione. Le autorità hanno successivamente adottato misure più drastiche per limitare la diffusione del virus: sono stati proibiti gli incontri che prevedono più di 50 persone, chiuse le frontiere, così come i mercati, le sale di spettacolo, immobilizzati i servizi di trasporto pubblico, instaurato il coprifuoco notturno dalle 19 alle cinque del mattino e la quarantena per le città e località dove sono stati registrati casi avverati di coronavirus.

Le misure sono state rispettate, tranne alcuni casi di abitanti non ancora al corrente o per una frangia della popolazione che vede in questo contesto un’occasione per sfidare l’autorità pubblica. Casi comunque minoritari rispetto all’insieme della popolazione che ha accettato queste misure nonostante il disagio che ne deriva per la vita quotidiana.

Per ora in alcune città vige il coprifuoco. Lei pensa che a breve si profili il confinamento, o ritiene questa una restrizione inadatta vista la cultura e il modo di vivere degli africani?

Di fatto, l’insieme delle misure già prese e quella del confinamento che si profila non trovano un ostacolo nella cultura africana in quanto tale, ma nel modo di vivere di una grande maggioranza della popolazione. Infatti nei quartieri poveri, nei villaggi e nelle città, gli alloggi e gli spazi comuni come le docce sono condivisi da numerose famiglie che mangiano insieme, spesso nello stesso piatto, vivono alla giornata, e escono ogni giorno per cercare di che sopravvivere. Perciò non penso che si possa imporre nel Burkina Faso un confinamento all’europea, bisogna trovare una formula che si presti alle esigenze di vita delle popolazioni africane. Penso piuttosto che per limitare la diffusione si devono applicare delle misure partendo da “centri concentrici”. Cioè limitare inizialmente i movimenti di popolazione tra le regioni, poi via via tra regioni e province, tra comuni della stessa provincia, tra città e paesi fino al confinamento delle famiglie. Misure che devono essere necessariamente accompagnate da facilitazioni nella distribuzione dei beni alimentari di prima necessità e nell’accesso delle cure. Penso che le autorità del Burkina Faso stanno lavorando in questo senso, purtroppo mancano i mezzi concreti per agire in tempo reale. Ecco perché l’appello del Santo Padre alla solidarietà e alla fratellanza deve essere più che mai ascoltato, come anche l’appello del segretario generale delle Nazioni Unite che invita i paesi sviluppati a aiutare l’Africa, pur essendo attualmente i più colpiti dal coronavirus.

Quali sono le sue più grandi preoccupazioni? C’è il rischio di assistere ad una grande epidemia dopo il rientro in Burkina Faso di persone contaminate in Europa o in Asia?

Sono molto preoccupato per tre motivi: innanzitutto, ho paura che la sfida per contenere la pandemia necessiti un dispiegamento di forze che supera le possibilità del mio paese. E che per questo si assista a un catastrofico aumento del numero dei morti. Non escludo poi il rischio che il Covid-19 finisca per mutare, a forza di trascinarsi in giro nel paese. Un mutamento del virus rischierebbe di annientare gli sforzi finora compiuti e produrre una seconda ondata nel mondo intero, questa volta con milioni di morti. Ecco perché ogni persona che rientra dall’Europa e dall’Asia in Burkina Faso rappresenta un eventuale rischio. Dato che i paesi non possono — e personalmente penso che non devono — chiudersi ermeticamente, penso che bisogna valutare  misure di prevenzione specifiche destinate a questi casi di cittadini che cercano di rientrare nel loro paese.

Parliamo della Chiesa, quali misure sono state adottate? Nella diocesi di Dori   e a livello della Conferenza episcopale Burkina Faso e Niger ?

Le autorità religiose hanno naturalmente seguito il Governo nella lotta contro il coronavirus, adottando le misure necessarie per le celebrazioni e le attività religiose. Già dal 12 marzo scorso, seguendo il provvedimento che limita il numero di persone presenti in uno stesso luogo, la Conferenza episcopale Burkina Faso e Niger ha diffuso le direttive sanitarie per la celebrazione dei sacramenti e le attività pastorali. Successivamente, il 18 marzo, sono state sospese tutte le celebrazioni con la presenza di fedeli (messe, via crucis, matrimoni, funerali, corsi di catechesi). Anche le altre Chiese hanno adottato misure analoghe, così come la comunità musulmana del Burkina Faso, in uno spirito di concertazione reciproca. In quanto vescovo di Dori sono responsabile della loro applicazione nella mia diocesi e posso dire che sono generalmente rispettate senza problemi. Vorrei anche ricordare che nella diocesi di Dori, viviamo già una specie di confinamento a causa degli attacchi terroristici che hanno limitato notevolmente gli spostamenti e i raduni. La nostra Caritas diocesana è impegnata nella protezione delle persone sfollate all’interno del nostro paese con la distribuzione di viveri e kit sanitari per l’igiene. Ma tutto questo è così aleatorio nei campi profughi dove sono ammassate tante persone, il covid-19 è un nuovo problema che si aggiunge ai tanti altri

Di cosa risentono più particolarmente i cattolici e come stanno vivendo questo tempo di Pasqua? Come annunciare la gioia della Risurrezione in queste circostanze?

Tutto dipende da dove si vive, in città o in campagna. Nelle città, si percepisce un senso di angoscia, di ansietà di fronte a questa malattia che sta dilagando rapidamente e modificando le abitudini. In campagna permane ancora la spensieratezza, anche se le informazioni  della pandemia cominciano a circolare. In ogni caso, non c’è alcuna psicosi, anzi c’è un senso di calma e serenità tra i fedeli. I cattolici hanno fiducia in Dio, in conformità alla cultura religiosa africana dove ci si affida sempre e innanzitutto a Dio. È nel segno della speranza che la popolazione aspetta la fine della pandemia così come l’avvenire di giorni migliori, perciò l’annuncio della gioia della risurrezione non presenta difficoltà particolari, anzi, questo annuncio è portatore di speranza di vita nuova e eterna. In Africa si lotta per la vita, ma non si ha paura della morte.

Come si svolge l’accompagnamento dei malati colpiti dal virus e dei morenti?

Per rispettare le esigenze sanitarie, sono cambiate le forme dell’accompagnamento ai malati e ai morenti. Non più vicinanza fisica — i malati sono in isolamento — ma conforto telefonico quando le loro forze lo consentono. C’è anche la possibilità di videochiamate, che sono di grande aiuto. Quando il malato è accessibile, si raccomanda ai preti di portare l’unzione degli infermi indossando i guanti appropriati e rispettando tutte le altre misure precauzionali. Se sopravviene la morte, è sempre possibile impartire l’assoluzione dei peccati, mentre la celebrazione della messa esequiale è rinviata.

Le persone sono più portate a riflettere sulla morte in questo periodo di crisi? Cosa si aspettano dalla Chiesa?

Rispondo in poche parole: nella cultura religiosa africana, si passa la vita a preparare la morte. Perciò ogni insegnamento sul come vivere gli ultimi istanti della vita è accolto favorevolmente. Quello che le persone si aspettano dalla Chiesa, sono dei chiarimenti per affrontare quest’ultimo tratto della vita, e un accompagnamento nel pellegrinaggio verso la casa del Padre. Spetta alla Chiesa di indicare il giusto cammino e gli strumenti per seguirlo.

di Charles de Pechpeyrou