I preti in Camerun di fronte all’emergenza coronavirus e agli scontri armati

Comunque accanto ai fedeli

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08 aprile 2020

Per la regione anglofona del Camerun sarà una Pasqua difficile, vissuta tra le violenze di una guerra civile che sembra non finire e l’epidemia di coronavirus che si sta lentamente diffondendo. «È da quattro anni che viviamo in condizioni terribili», spiega a «L’Osservatore Romano» un religioso che chiede di mantenere l’anonimato per non mettere a rischio la sua incolumità e quella della comunità in cui vive. «La Provincia ecclesiastica di Bamenda, composta dall’arcidiocesi di Bamenda e dalle diocesi di Buéa, Kumba, Kumbo e Mamfe, si trova nelle regioni nord-occidentali e sud-occidentali del Camerun, cioè la regione anglofona. Qui, gli scontri armati sono un problema quotidiano. Stiamo patendo una guerra che ha causato morti e distruzione».

Per capire le motivazioni che stanno alla base di questo scontro occorre fare un passo indietro fino al 1960, anno in cui il Camerun ha ottenuto l’indipendenza dalla Francia. In quel frangente, la parte meridionale del Camerun britannico si stacca unendosi alle province meridionali per formare la Repubblica federale del Camerun. Nel 1972, il paese cambia poi nome, perde la sua caratteristica federale e diventa Repubblica unita del Camerun e, successivamente, nel 1984, Repubblica del Camerun.

Negli anni, la popolazione anglofona ha accusato più volte le autorità di Yaoundé di  discriminazione  ed emarginazione  economica e culturale. La scintilla che porta all’incendio scoppia nel 2016. Nella regione anglofona, gli insegnanti e gli avvocati organizzano scioperi e manifestazioni in strada. Protestano contro l’invio di giudici e insegnanti francofoni che, a loro dire, non avrebbero la preparazione adeguata per gestire i processi secondo la common law e non sarebbero in grado di seguire i programmi scolastici incentrati sulla lingua inglese. Nel 2017 la crisi conosce un’escalation militare quando alcuni gruppi anglofoni proclamano l’indipendenza. Una decisione che porta a uno scontro tra i separatisti e l’esecutivo di Paul Biya. La violenza e le atrocità commesse da tutte le parti in conflitto costringono 656.000 camerunesi di lingua inglese a lasciare le loro case, ottocentomila bambini a non andare a scuola (inclusi i quattrocentomila alunni delle scuole cattoliche), cinquantamila persone a fuggire in Nigeria, con centinaia di villaggi distrutti e almeno duemila persone uccise.

L’emergenza umanitaria è solo stata in minima parte attutita dalla tregua dichiarata da Samuel Ikome Sako, leader dei separatisti, per contenere la diffusione del coronavirus.  I combattimenti si sono diradati, ma la tensione rimane alta. L’esercito continua a pattugliare le strade con mezzi blindati e, in alcuni casi, specie nei villaggi, si registrano ancora agguati e uccisioni. «In questi anni — continua la nostra fonte — la vita non è stata facile per vescovi, sacerdoti, religiosi, cristiani. Alcuni presuli sono stati rapiti, diversi sacerdoti sono stati addirittura torturati. Non solo le autorità religiose, ma anche i civili vengono rapiti quotidianamente per essere liberati dietro riscatto. Molti cristiani hanno perso i loro cari e hanno visto bruciare le loro case. In questo contesto di instabilità e violenza, celebrare le funzioni religiose non è stato semplice. Di fronte alle costanti minacce, soprattutto da parte dei separatisti, la Chiesa cattolica cerca di avvicinare i ragazzi per educarli ai valori della vita. Da tempo, i vescovi chiedono che si apra un dialogo inclusivo attraverso il quale le parti si confrontino senza pregiudizi».

A questa situazione difficile, nelle ultime settimane, si è aggiunta la minaccia strisciante dell’epidemia di Covid-19. Le autorità di Yaoundé hanno dichiarato che i casi registrati di coronavirus sono circa settecento e una quindicina i morti. In realtà non si sa quanti siano i contagiati. Probabilmente molti di più, considerata anche la difficoltà nell’effettuare i tamponi. «L’epidemia è un’ulteriore, grande, difficoltà alla quale dobbiamo fare fronte», spiega il religioso. «Il virus minaccia tutti e, in particolare, quelle persone che già vivono in condizioni precarie. Penso a coloro che sono fuggiti dalle violenze e sono costretti a vivere nei boschi in condizioni igieniche terribili, sotto ripari di fortuna». Di fronte a questa emergenza umanitaria, i vescovi della Provincia ecclesiastica di Bamenda hanno interrotto le messe e hanno dato ai parroci l’opportunità di celebrare il triduo pasquale nelle rispettive chiese parrocchiali, ma solo con più di cinquanta cristiani. Gli stessi vescovi celebreranno le funzioni sacre nelle rispettive cattedrali sempre alla presenza di non più di una cinquantina di persone. Anche le messe del Crisma, tradizionalmente momento di celebrazione e di incontro tra i presuli e i sacerdoti delle diocesi, sono state rinviate. «L’epidemia costringe a prendere le dovute precauzioni», conclude la nostra fonte. «Ciò non significa che la Chiesa cattolica non sia vicino ai fedeli. I vescovi hanno invitato i cristiani a contattare telefonicamente i vescovi e i parroci per questioni di grave necessità. I pastori rimangono a disposizione dei cristiani e di chiunque abbia bisogno. Anche questa è la nostra Pasqua».

di Enrico Casale