L’incontro con il misterioso viandante di Emmaus e la scoperta della mistica in Simone Weil

Come un sorriso in un volto amato

Matera, murale dedicato a Simone Weil (foto di Angela Capurso)
15 aprile 2020

È noto il travaglio di Simone Weil prima di approdare alla fede cristiana. Della propria vicenda lei stessa racconta alcune esperienze: l’accorata, profondissima pena che le accadde di condividere ascoltando il canto straziante delle donne dei pescatori una sera in Portogallo — «Non ho mai udito un canto così doloroso, se non quello dei battellieri del Volga. Là, improvvisamente, ebbi la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, ed io con loro» scrive in Attesa di Dio — le due giornate trascorse nel 1937 ad Assisi dove «nella piccola cappella romanica del secolo XII di Santa Maria degli Angeli, incomparabile miracolo di purezza, in cui san Francesco ha pregato tanto spesso» per la prima volta nella vita le accadde di sentirsi come obbligata a inginocchiarsi, l’esperienza mistica vissuta nella Settimana santa del 1938 a Solesmes. A Solesmes, tra la domenica delle Palme e il martedì di Pasqua, la congiunzione tra «la gioia pura e perfetta nella inaudita bellezza del canto e delle parole» nelle funzioni e l’estrema sofferenza fisica personale le permise d’intuire «la possibilità di amare l’amor divino attraverso la sofferenza» e d’intravvedere la virtù soprannaturale dei sacramenti nel volto radioso di un giovane che le fece poi scoprire i poeti metafisici inglesi, sino alla lettura della poesia Amore di George Herbert, rivelatasi efficace sull’anima come una preghiera. «A mia insaputa, quella recitazione aveva la virtù di una preghiera. Fu proprio mentre la stavo recitando che Cristo, come già vi scrissi, è disceso e mi ha presa», annota, e «nei miei ragionamenti sull’insolubilità del problema di Dio non avevo previsto questa possibilità di un contatto reale, da persona a persona, quaggiù, fra un essere umano e Dio», «la presenza di un amore analogo a quello che si legge nel sorriso di un viso amato. Non avevo mai letto nulla dei mistici».

Nella traduzione di Cristina Campo, che amava i metafisici inglesi, come amava la Weil, la poesia di Herbert (pubblicata dapprima nel volume de I mistici dell’occidente a cura di Elémire Zolla, nel 1963) è resa così: «Amore mi diede il benvenuto; ma l’anima mia si ritrasse, / Di polvere macchiata e di peccato. / Ma Amore dal rapido sguardo, vedendomi esitante / Sin dal mio primo entrare, / Mi si fece vicino, dolcemente chiedendo / Se di nulla mancassi. // Di un ospite, io dissi, degno di essere qui. / Allora disse: Quello sarai tu. / Io, lo scortese e ingrato? O, amico mio, / Non posso alzare lo sguardo su Te. / Allora mi prese la mano e sorridendo rispose: / E chi fece gli occhi se non io? // È vero, Signore, ma li macchiai: se ne vada la mia vergogna / Là dove merita andare. / E non sai tu, disse Amore, chi portò questa colpa? / Se è così, servirò, mio caro. / Tu siederai, disse Amore, per gustare della mia carne. / Così io sedetti e mangiai». (testo raccolto in La tigre assenza, Adelphi, 1991).

Nel rapporto tra Amore e il suo ospite si riconoscono le medesime dinamiche relazionali dell’esperienza mistica, che per essere raccontate non di rado attingono al Cantico dei Cantici, dove nelle espressioni più ardite dell’amore naturale tra due giovani, nelle modalità della ricerca e dell’inseguimento, mirabilmente si rappresenta il rapporto tra l’anima e Dio, come anche al tempo stesso tra Dio e il suo popolo.

Simone Weil rappresenta qualcosa di analogo a sua volta, come esperienza di incontro con una presenza viva, personale, in un brano del quale nei Cahiers si trovano più stesure in collocazioni diverse, ma che è stato pensato ad incipit di tutti i quaderni come Prologue de La connaisance surnaturelle. In quelle pagine, che la Campo ritenne sempre tra le più alte della Weil, si riporta un’esperienza mistica sullo sfondo di una città che madame Selma Weil, la madre di Simone, pensò essere Parigi.

«Entrò nella mia camera e disse: “Miserabile, che non comprendi nulla, che non sai nulla. Vieni con me e t’insegnerò cose che neppure sospetti”. Lo seguii. Mi portò in una chiesa. Era nuova e brutta. Mi condusse di fronte all’altare e mi disse: “Inginocchiati”. Io gli dissi: “Non sono stato battezzato”. Disse: “Cadi in ginocchio davanti a questo luogo con amore come davanti al luogo in cui esiste la verità”. Obbedii. Mi fece uscire e salire fino a una mansarda da dove si vedeva attraverso la finestra aperta tutta la città, qualche impalcatura in legno, il fiume dove alcune imbarcazioni venivano scaricate. Nella stanza c’erano solo un tavolo e due sedie. Mi fece sedere. Eravamo soli. Parlò. Talvolta qualcuno entrava, si univa alla conversazione, poi se ne andava. Non era più inverno. Non era ancora primavera. I rami degli alberi erano nudi, senza gemme, in un’aria fredda e piena di sole. La luce sorgeva, splendeva, diminuiva, poi le stelle e la luna entravano dalla finestra. Poi di nuovo sorgeva l’aurora. Talvolta taceva, prendeva da un armadio un pane e lo dividevamo. Quel pane aveva davvero il gusto del pane. Non ho mai ritrovato quel gusto. Mi versava e si versava del vino che aveva il gusto del sole e della terra dove era costruita quella città. Talvolta ci stendevamo sul pavimento della mansarda, e la dolcezza del sonno scendeva su di me. Poi mi svegliavo e bevevo la luce del sole. Mi aveva promesso un insegnamento, ma non m’insegnò nulla. Discutevamo di tutto, senza ordine alcuno, come vecchi amici. Un giorno mi disse: “Ora vattene”. Caddi in ginocchio, abbracciai le sue gambe, lo supplicai di non scacciarmi. Ma lui mi gettò per le scale. Le discesi senza rendermi conto di nulla, il cuore come in pezzi. Camminai per le strade. Poi mi accorsi che non avevo affatto idea di dove si trovasse quella casa. Non ho mai tentato di ritrovarla. Capii che era venuto a cercarmi per errore. Il mio posto non è in quella mansarda. Esso è dovunque, nella segreta di una prigione, in uno di quei salotti borghesi pieni di ninnoli e di felpa rossa, in una sala d’attesa della stazione. Ovunque, ma non in quella mansarda. Qualche volta non posso impedirmi, con timore e rimorso, di ripetermi un po’ di ciò che egli mi ha detto. Come sapere se mi ricordo esattamente? Egli non è qui per dirmelo. So bene che non mi ama. Come potrebbe amarmi? E tuttavia in fondo a me qualcosa, un punto di me, non può impedirsi di pensare tremando di paura che forse, malgrado tutto, mi ama».

Insieme ai simboli eucaristici con i quali si esprime la beatitudine della relazione, il brano contiene allusioni alla vicenda esistenziale dell’autrice, ad esempio le esitazioni sul Battesimo (che più di recente sappiamo avere ricevuto in punto di morte) l’episodio della spinta interiore a mettersi in ginocchio, il senso della propria indegnità, ma anche altre circostanze esterne come verosimilmente la prigione di Rouen dove nel febbraio-maggio 1940 si curò del fratello lì recluso. L’episodio della mansarda è stato interpretato anche come una rappresentazione del rapporto drammatico di lei, che è stata detta «la santa degli esclusi» (Gianni Criveller) con la Chiesa.

Ma pensando alla realtà della Risurrezione e al volto trasfigurato del Risorto, non immediatamente riconoscibile ai sensi naturali — nemmeno agli occhi dei discepoli inizialmente, che pure avevano familiarità con il loro Maestro — è interessante quella sorta di riscrittura che ne fece a suo modo la Campo con la poesia Emmaus, apparsa su «Il Corriere dell’Adda» il 14 dicembre 1957. «Ti cercherò per questa terra che trema / lungo i ponti che appena ci sorreggono ormai / sotto i meli profusi, le viti in fiamme. / Volevo andarmene sola al Monte Athos / dicevo: restano pagine come torri / negli alti covi difesi da un rintocco / (...) / Ma ora non sei più là, sei tra le grandi ali incerte / trapassate dal vento, negli aeroporti di luce // (...) / nei denti disperati degli amanti che non disserra / più il dolce fiotto, la via d’oro del figlio».

Ti cercherò «per questa terra che trema (...) ora non sei più là» similmente a «Il mio posto non è in quella mansarda. Esso è dovunque, nella segreta di una prigione (...) in una sala d’attesa della stazione», nei luoghi più squallidi e anonimi della vita ordinaria. È evidente la presenza del modello weiliano nella poesia della Campo, la quale in prosa scriverà a sua volta un proprio saggio di Sensi soprannaturali; ma a quel punto il rapporto con la Weil sarà non più così stretto e la vita stessa tutta proiettata nella liturgia. I versi 4-6 della prima strofa richiamano il profeta Isaia a proposito del giusto che «cammina nella giustizia»: «costui abiterà in alto, / fortezze sulle rocce saranno il suo rifugio». Ma neanche nei monasteri impervi come alti colombari si trova più l’Amato, resosi ormai invisibile: ora non sei più là, sei «tra le grandi ali incerte / trapassate dal vento, negli aeroporti di luce». Lungo le vie della sofferenza, nel dolore, può farsi trovare il Risorto (la via d’oro del figlio); «nei denti disperati degli amanti che non disserra / più il dolce fiotto», le tracce dell’oro di quella Sua regalità. Gli ultimi versi alludono come per controcanto, capovolto il contesto, al più bello dei canti («Il tuo palato è come vino squisito, / che scorre diritto verso il mio diletto / e fluisce sulle labbra e sui denti!», Cantico dei Cantici 7, 10). «Io vorrei scrivere certi versi che ho in mente da tanto tempo — scrive la Campo in una lettera del dicembre 1956 a Margherita Pieracci Harwell — una specie di Cantico dei Cantici rovesciato. “Andrò per le piazze e per le vie, cercherò quelli che nessuno ama”».

Senza addentrarci negli aspetti più squisitamente formali di analisi stilistica, non si può trascurare però il fatto che nell’economia del testo di Emmaus i puntini di sospensione che precedono ciascuno dei tre raggruppamenti dei versi fungono da formula anaforica, in assenza, per esprimere un indicibile che precede ogni parola umana, qualcosa che si lascia intuire come presenza significativa, poiché ritorna, senza esplicitare.

L'episodio evangelico dei discepoli di Emmaus attesta la Risurrezione mostrando il Risorto come presenza nascosta ma reale viva e vicina, la presenza del Signore con noi, a noi donata per sempre sotto le specie del pane eucaristico. Presenza trasfigurata nella vittoria, per questo inafferrabile allo sguardo dei sensi “naturali” (non ai sensi sovrannaturali). È raccontato nel Vangelo secondo Luca (24, 13-35), mentre è solo enumerato tra le prime apparizioni del Risorto in Marco (16, 12). Luca conclude: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?».

Nella poesia della Campo è il titolo a richiamare palesemente il brano evangelico. I versi che seguono denotano, come nel brano della Weil, l’inquietudine che subentra al nascondimento, la premura della ricerca che ricomincia, la dinamica dell’inseguimento. Anche i discepoli, quando scomparve ai loro occhi, ricolmi di gioia si affrettarono a riprendere il cammino, e confrontandosi lungo la via corsero ad annunciare.

di Anna Maria Tamburini