Il «contagio della solidarietà» nel cortometraggio di Angelo Libri

Che fatica non donare niente

Ricky Memphis in una scena del video
25 aprile 2020

Ci sono tanti modi di farsi contagiare. Mentre su scala planetaria si combatte la diffusione di un virus aggressivo, con rispettosa ironia Angelo Libri, attore e regista, introduce la sua sfida al distanziamento sociale. Lo fa attraverso un cortometraggio incisivo, che illumina le ragioni ultime del nostro stesso esser chiusi da settimane in casa: l’altro, il suo bene, la sicurezza dei più fragili, la collaborazione dovuta a chi espone sé stesso alla fatica e al rischio. Anche il bene è contagioso.

Così, seduto in uno studio medico, il protagonista dello sketch si vede diagnosticata una potentissima forma virale, quella di chi davanti al bisogno altrui non sa resistere, si immedesima e, soprattutto, sa di poter dare e dà. Il titolo — Basta un mercatino — denuncia quanto la dinamica della solidarietà sia coinvolgente, specialmente in un Paese profondamente segnato dall’associazionismo e dalla gratuità.

«Quella del cortometraggio sembra una normale conversazione tra me e mia mamma», confida Federica, da pochi mesi sposata con Luca. Coppia estroversa ed evangelicamente contagiosa: «Per noi il volontariato, inteso come dedicare tempo ad altri senza nessun ritorno economico, fa parte della vita. Non viviamo da soli su un’isola deserta, ma siamo circondati da persone che molte volte hanno bisogno di un aiuto concreto. Mia madre, rispetto al video, è più sulla posizione del dottore: per lei bisogna mettere davanti a tutto se stessi. Gli altri possono attendere, vengono dopo, ci si può prendere cura di loro solo se c’è un utile quantificabile. Ciò che le persone come lei non capiscono è che senza gratuità ci sente incompleti, è come se si stesse sprecando la vita».

In effetti, nei pochi minuti del video, la diagnosi infausta scatena un confronto che non solo per Federica, ma per molti è quotidiano: quello con la voce di chi obietta qualcosa di più duro di un semplice «Chi te lo fa fare?». Una lotta contro l’idea che il bene sia cattivo, faccia ammalare, rovini, sia dannoso, oltre che insensato. È un conflitto che può diventare interiore, ma che si consuma anzitutto nelle nostre case, spesso tra chi dalla vita è stato deluso o ferito e chi, invece, “ci crede ancora”. Ashley, 24 anni, lo riconosce: «Forse è proprio perché dalla malattia del volontariato non si guarisce mai: ho iniziato con l’oratorio e poi c’è stato un campo con persone con disabilità a Cesenatico, la signora anziana a cui andavo a far compagnia... e così anno dopo anno, esperienza dopo esperienza, ho capito che l’unica medicina per il vuoto che ogni tanto sentiamo è questa, continuare a donarci».

Il carattere virale del bene, oltre a caratterizzare storie in cui la vita è come se si dilatasse, allarga i circuiti della positività, delle amicizie, del senso di appartenenza. Il cortometraggio inscena un paradossale allarme, acceso dall’impossibilità di arginare i comportamenti virtuosi. Il regista mette così in luce uno dei punti di resistenza più sorprendenti della cultura italiana: partecipare, inventare, coinvolgere, apprezzare l’essere insieme a maniche rimboccate. A mancarci ancora, forse, è un pensiero su questa originalità che le emergenze e le tragedie collettive portano sempre in primo piano, quando essa è piuttosto il segreto di un tessuto economico, assistenziale, educativo in cui la testimonianza, il passaparola, le idealità condivise fanno costantemente la differenza. Osserva Nicolò, 23 anni: «Contaminare noi italiani con una dose importante di autoironia penso sia il modo migliore per farci riflettere. In questo siamo davvero bravi e forse è l’unico modo per trasmettere messaggi, a partire dai quali ora ripensare tutto».

La sosta a cui ci ha costretti il coronavirus, infatti, ha potenzialità da non disperdere: sotto i nostri occhi, spesso attraverso uno schermo, la realtà si è fatta spazio, ha posto radicali interrogativi, ci ha rimessi a contatto con una fragilità costitutiva e una comune appartenenza. L’umorismo e la satira sono come il sale di una coscienza collettiva: bruciano, ma esaltano il sapore di ciò che nutre la convivenza. Dobbiamo maturare uno sguardo nuovo, più grato, su quanto ci unisce. Molto sta per venirci chiesto.

«Non ho tempo»: nel video è il nome di una delle medicine prescritte al troppo generoso protagonista. «Spesso ci si nasconde dietro questa frase — osserva Fabio, trentenne — per dribblare ciò che non si ha la voglia, o forse il coraggio, di fare: osare vivere di più. Il non aver tempo è una sottomissione a degli schemi quotidiani automatici, dove il minimo cambiamento finisce con l’irritare e col pesare come un macigno. E poi aggiungiamo “tanto lo fanno gli altri”, per non mettersi in gioco appieno e sentirsi sollevati dal partecipare alla costruzione di progetti, “perché il mio contributo non è così importante e decisivo”. Sono alibi per non esporci mai».

Quanto Papa Francesco ci sta richiamando è inequivocabile: la Chiesa può mettere in circolo, nel dramma contemporaneo, la dedizione che la genera. Abbiamo visto e conosciuto una Bellezza che ci ha contagiati: il Gratuito, l’Immeritato. Impossibile, avendone fatta esperienza, rimanerne immuni. Nel cortometraggio, in effetti, il Papa stesso, contaminato dalla grazia, appare in cura. Sì, quello gratuito è un bene avversato, ma dalle prove reso più puro e riconoscibile.

Occorre oggi studiarlo, pensarlo, indicarlo anche attraverso le forme artistiche, come ciò che non riguarda solo la vita dello spirito, ma lo slancio necessario a modificare la convivenza civile e le priorità collettive.

di Sergio Massironi