La Via Crucis per soli, coro e organo (o pianoforte) di Franz Liszt

Capolavoro visionario

Nicola Fumo, «Gesù caduto portando la croce» (1698)
10 aprile 2020

La prima esecuzione avvenne solo 43 anni dopo la morte dell’autore


«Scrivo questo testamento il 14 settembre, quando la Chiesa celebra l’Esaltazione della Santa Croce. Il nome di questa ricorrenza esprime l’ardente e misterioso sentimento che ha trafitto la mia intera esistenza come una sacra ferita. Sì, il Signore crocifisso, la follia e l’esaltazione della Croce, questa è stata la mia vera vocazione». Queste parole, risalenti al 1860, segnano l’inizio del testamento di Franz Liszt. Il compositore ancora non sapeva che, meno di vent’anni dopo, avrebbe tradotto in termini musicali i sentimenti qui descritti, dando vita a una delle partiture più affascinanti ed enigmatiche della sua intera produzione. Non una Passione, non un Oratorio, né un Requiem, bensì un unicum che avrebbe preso il nome da una delle pratiche spirituali più diffuse nel cattolicesimo: la Via Crucis. Nel compiere ciò, Liszt non faceva altro che rispondere alla «vera vocazione» che, a suo dire, avrebbe condotto, in modo più o meno velato, la sua esistenza sotto il segno della Croce. È lo stesso compositore a ripercorrere nel testamento le tappe di questa chiamata vocazionale mancata: «all’età di 17 anni (...) chiesi con lacrime e suppliche di poter essere ammesso al seminario di Parigi e (...) sperai che mi fosse data l’opportunità di vivere la vita dei santi e forse di morire da martire. Sfortunatamente ciò non è avvenuto! Ma da allora la luce divina della Croce non mi ha mai abbandonato».

Parole — forse non scevre di retorica ma sincere — che sembrano scontrarsi con la figura del personaggio-Liszt, uomo di successo tra i più ritratti e fotografati del suo secolo. È tuttavia un Franz radicalmente diverso quello che si appresta a scrivere la Via Crucis: nella cosiddetta “terza fase” della sua biografia — dall’inizio degli anni ’60 fino alla morte nel 1886 — il compositore vive uno dei momenti più duri della sua vita, e le difficoltà, come la morte della figlia Blandine, arrivano a segnare anche il suo stesso fisico. «Una delle più notevoli rovine di Roma»: così viene dileggiato il celebre compositore durante la sua permanenza romana.

È proprio nella Città Eterna che Liszt nel 1865 riceve la tonsura e gli ordini minori, assumendo l’improprio titolo di Abbé. Qualche anno dopo, sempre a Roma, Liszt iniziava a mettere mano alla composizione della sua Via Crucis, anche se la gestazione si rivelò più travagliata del previsto: nel 1874 esterna in una lettera il suo desiderio di iniziare la composizione; il 23 ottobre del 1878 sembra aver finito — «Finalmente è completa (eccetto le indicazioni dei forte e dei piano) e ancora mi fa sentire abbastanza scosso» —, ma è solo nel 1879 a Budapest che la partitura viene ultimata in modo definitivo.

Nella descrizione posta all’inizio della partitura, l’autore, dopo aver raccontato e descritto la pratica della Via Crucis, arriva ad augurarsi che un giorno la sua opera possa risuonare di Venerdì Santo tra le mura del Colosseo. Poche note pesate e calibrate a una a una, e un’atmosfera sonora rarefatta ed essenziale: questa è la cornice in cui prendono vita le 14 Stazioni musicali della Via Crucis per soli, coro e organo (o pianoforte). È facile trovare una corrispondenza biografica nell’asciuttezza del tessuto musicale; tuttavia la composizione non è solo un riflesso dell’interiorità del suo autore, ma uno spazio sonoro in cui si concretizza un vero e proprio dialogo con la Storia. Subito dopo le iniziali ottave vuote del pianoforte — un motivo che emerge in molti momenti salienti di questo lavoro — l’Introduzione presenta una rielaborazione della melodia gregoriana dell’inno altomedievale Vexilla regis, composto, pare, da Venanzio Fortunato  in occasione dell'arrivo di una reliquia della Croce  a  Poitiers. Ripartendo dai primordi della storia della musica occidentale — il cantus planus del Vexilla Regis, la sequenza dello Stabat Mater e le citazioni del Dies Irae —, e facendo tappa a più riprese sul corale luterano e, in particolare, su Bach e la sua Matthäus-Passion, Liszt prende la rincorsa per rompere le barriere del suo tempo, aprendo la strada ai linguaggi sonori del secolo successivo. Gli usuali schemi modali e tonali — l’ossatura di tutta la musica occidentale fino al XIX secolo — lasciano il posto talvolta a strutture atonali che saranno la base per le rivoluzioni e le trasformazioni musicali del Novecento. Un’altra rottura con la tradizione riguarda l’equilibrio delle parti: il coro infatti interviene solo in otto delle quindici sezioni che compongono la Via Crucis lisztiana. La tastiera, organo o pianoforte, assume invece un ruolo preponderante che eccede dal semplice accompagnamento della compagine vocale, per acquistare una propria voce: quella dell’uomo-Liszt nel commentare le scene della Passione che si presentano davanti ai suoi occhi. Scene talvolta violente — come le stazioni in cui Gesù cade o il Crucifige della Stazione xi — ma che, in altri casi, lasciano il posto a notevoli aperture dello Spirito; è il caso della Stazione iv — «Gesù incontra sua madre» — in cui, a una salita affaticata e incostante di note cromatiche, segue un momento di profonda commozione tonale: una semplice nota di re, corredata dell’indicazione «dolcissimo», sta a simboleggiare lo sguardo tra Gesù e Maria lungo la salita del Calvario. L’aspetto visionario di questo capolavoro non venne compreso dai contemporanei; sembra che addirittura Wagner, colui che aveva forzato le gabbie del linguaggio tonale, abbia detto alla moglie Cosima, figlia di Liszt, di assicurarsi che suo padre la smettesse con assurdità del genere. Non è un caso che la partitura completa non venne mai eseguita mentre il compositore era in vita, e abbia visto la luce solo nel 1929, ben 43 anni dopo la morte dell’autore.

Questo sguardo che sovrasta la Storia, non è tuttavia una prospettiva a-storica, ma affonda le sue radici in un fatto concreto: «Per parte mia ritorno più che mai al mio punto di partenza, al cristianesimo». Una musica solitaria, quella della Via Crucis, spogliata del virtuosismo che abbondava nelle composizioni precedenti e ridotta all’essenza. La stessa straordinaria essenzialità che contraddistingue i due legni sovrapposti della Croce, davanti cui il compositore, come ci racconta, si inginocchiava ripetendo nella commozione: «O! Crux Ave! Spes unica!».


di Matteo Macinanti