Xavier de Maistre e l’arte di viaggiare con la mente

Camera con vista

Xavier de Maistre raffigurato in una stampa dell’epoca (XVIII secolo)
01 aprile 2020

Chissà come Pascal avrebbe apostrofato quanti oggi scalpitano, impazienti, per uscire di casa, poiché costretti dal coronavirus a rimanervi. A prescindere dalla contingente opportunità delle attuali misure logistiche dirette a contenere l’epidemia, il pensatore francese — con la lungimiranza che lo caratterizzava e lo nobilitava — aveva messo in guardia l’umanità asserendo, con perentoria sicurezza, che tutti i mali del mondo, pur nella loro diversità e molteplicità, hanno un’unica causa: il fatto che l’uomo non sa starsene tranquillo in camera sua.

Ma sicuramente Pascal sarebbe stato fiero del connazionale scrittore e militare Xavier de Maistre, fratello del più celebre Joseph, che, circa un secolo e mezzo dopo, sciolse un vero e proprio inno al valore della stanza, e del grande potenziale in essa contenuto, nella ben nota opera Viaggio intorno alla mia camera (1794).

Ventiseienne, aiutante maggiore di battaglione del reggimento di fanteria La Marina, Xavier, nel 1790, ebbe una vertenza d’onore a Torino con l’ufficiale Patono de Meyran con il quale andò a duello, vincendolo. Ma una punizione gli venne comunque inflitta: fu messo agli arresti domiciliari. Qualche anno prima Xavier aveva sperimentato l’ebbrezza del volo compiendo un’ascensione di duemila metri in mongolfiera. Era uno spirito avventuriero, il suo, dunque. Eppure l’imposizione ingiuntagli non l’avvertì come una soffocante limitazione, ma come una straordinaria quanto inedita opportunità da valorizzare. Confinato in casa per quarantadue giorni, tanti sono i capitoli del libro, l’autore — con lo stesso spumeggiante spirito che lo aveva fatto salire sulla mongolfiera — percorre la sua camera in lungo e in largo, nonché in diagonale e zigzagando. Non volendosi poi alzare dalla poltrona, la sposta facendola muovere sulle gambe posteriori. Dunque, quarantadue giorni costretto a casa: in un arco di tempo così esteso si sarebbe potuto fare un bel viaggio, per giunta in un Paese esotico. Ma Xavier non si lascia irretire da questa tentazione alla quale oppone un suo proprio viaggio, che consiste nel far volare la propria mente sulla scia dei ricordi evocati dai mobili e dagli oggetti presenti nella stanza. Questa strategia, tiene a sottolineare l’autore, non è affatto un ripiego. Né una magra consolazione o un modesto compromesso. Tutt’altro.

E lo dimostra concretamente perché nell’intrecciare sapientemente gustosi aneddoti, riflessioni morali e motti arguti lo scrittore riesce a creare uno scenario così dinamico e coinvolgente che ci si dimentica di stare chiusi entro quattro anguste mura e sembra di respirare l’aria del mondo e di esso goderne il fascino e le bellezze. Il suo è un monologo che, in realtà, nel corso del viaggio si sviluppa in un dialogo tra due parti di sé: l’anima e quella che è detta “l’altra”, cioè il corpo. Tra i due interlocutori nascono battibecchi legati alla differenza di opinioni riguardo alle diverse questioni passate in rassegna. Ma la divergenza di fondo è sempre gestita con grazia e signorilità. Nessuno ha il diritto di turbare la quiete, al contempo confortante e creativa, che regna in quella stanza.

Non c’è stampa e non c’è quadro che non susciti nella mente dell’autore un ricordo che, a ben guardare, si configura come una lezione di vita che il saggio saprà poi tesaurizzare. E come ogni collezione che si rispetti, c’è il pezzo forte. In questo caso si tratta dello specchio il quale, scrive de Maistre, è «sempre imparziale e vero, rimanda agli occhi dello spettatore le rose della giovinezza e le rughe dell’età, senza calunniare né lusingare nessuno». E non meno incisiva è la riflessione elaborata, sempre sprofondato comodamente nella sua amata poltrona, sul valore e l’importanza della rosa. In un cassetto di un mobile riposa una rosa secca: questo nudo fatto offre lo spunto per richiamare la storia di un cavalier servente che vede ignorato il fiore offerto con tanto candore alla sua dama perché tutta occupata a pettinarsi. Povero fiore! sembra esclamare de Maistre il quale fa presente che quando si viaggia e si raggiungono terre lontane, si è tutti presi dal desiderio di vedere grandi monumenti, fantastiche attrazioni, e di contemplare panorami che tolgono il fiato.

Tutto giusto e legittimo, a dire il vero, ma chi, una volta approdato in lande remote, si fermerà a fissare un fiore sul bordo di una via, per sentirne il profumo, per godere della sua bellezza e per nutrirsi del suo seducente incanto?

De Maistre dunque, pur chiuso nella sua stanza, non solo sa viaggiare lontano, ma sa anche e soprattutto cogliere e apprezzare la sostanza vera sottesa a uno spostamento e a un itinerario il cui valore non si misura in chilometri. E non ha certo bisogno di fare le valigie, tanto meno di stiparle con tanti abiti. Al contrario, gli basta rimanere in pigiama di cui, tra l’altro, è ben fiero. Il suo elegante pigiama è rosa e bianco, gli stessi colori delle morbide lenzuola: con disarmante candore, egli si dice orgoglioso di questa armonia tanto da consigliare al lettore di indossare abiti con questi due colori perché favoriscono il riposo della mente, soprattutto quando essa è vessata da un turbinio di pensieri.

Allo scoccare del quarantaduesimo giorno di confinamento, Xavier, nel proclamare la sua rivincita, con giustificato orgoglio scrive: «Oggi stesso certe persone da cui dipendo hanno la pretesa di ridarmi la libertà. Come se me l’avessero tolta! Come se avessero potere di rubarmela un solo istante e di impedirmi di percorrere a mio piacimento il vasto spazio sempre aperto dinanzi a me. Mi hanno vietato una città, ma mi hanno lasciato l’universo intero».

di Gabriele Nicolò