Il 13 aprile di vent’anni fa moriva Giorgio Bassani

Al di là di quel muro

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07 aprile 2020

«E così io rinunciai a Micol». Il culmine dello struggimento per un amore, già nutrito da bambino, mai veramente corrisposto si specchia in questa frase che apre uno dei capitoli più coinvolgenti e amari de Il giardino dei Finzi Contini (1962) il capolavoro di Giorgio Bassani, vincitore del premio Viareggio. È lui l’io narrante di un’opera (s’inserisce nella trilogia de Il romanzo di Ferrara) che racconta la parabola di una ricca famiglia ebrea dell’alta borghesia i cui componenti saranno deportati — in seguito all’approvazione delle leggi razziali — prima a Fossoli e poi in Germania, nei campi di concentramento nazisti, dove troveranno la morte.

Era un promettente pianista lo scrittore bolognese, di cui il 13 aprile ricorrono i vent’anni della morte, ma quell’armonia, severa e dolce al contempo, di cui dava prova mentre le sue dita scorrevano sui tasti del pianoforte, si trasfuse ben pesto nella pagina: le sue dita allora cominciarono a muoversi leggiadre sui testi della macchina per scrivere. Anche l’io narrante è ebreo (lui però appartiene alla media borghesia) come lo era Bassani: alcuni suoi parenti furono deportati nel campo di concentramento di Buchenwald. La travagliata storia di amore per Micol — che della dinastia dei Finzi-Contini costituirebbe l’espressione più luminosa e più candida — intende simboleggiare il tramonto di un’epoca, dapprima spensierata e poi travolta dalla furia nazista.

Un’epoca che trova una singolare espressione in quel muro che l’io narrante, all’inizio dell’opera, quando tutto andava bene, non aveva avuto il coraggio di scavalcare. Quel muro proteggeva il giardino dei Finzi-Contini e su quel muro stava a cavalcioni la giovane Micol, che lo invitava a salire, a mettersi accanto a lei per poi ridiscenderlo dall’altra parte.

Ma lui, assai timido, troppo timido, non aveva mai avuto il coraggio di abbandonarsi all’esortazione di Micol, quella ragazza tanto colta che amava la letteratura, in particolare Emily Dickinson (sulla quale avrebbe poi incentrato la sua tesi di laurea). Verso la conclusione del romanzo, quando si ritroverà a passare davanti a quel muro, deciderà di scavalcarlo. Sembra quasi un paradosso. L’iniziativa la prende quando non c’è più l’amata Micol che lo invita a salire. Ma la sua non è un’impresa vana. Scavalcato quel muro, infatti scoprirà, o pensa di aver scoperto (non ne avrà mai la certezza) che Micol — una scala sospetta starebbe lì a confermarlo — si vedeva di nascosto con un amico di famiglia, Malnate, per fuggevoli e furtivi incontri di amore. Forse allora la ragazza non rappresentava proprio l’espressione luminosa e candida della rispettata famiglia dei Finzi-Contini.

Quel muro serve quindi a segnare un decisivo momento di consapevolezza nella mente dell’io narrante. L’averlo scavalcato, da solo e senza un valido motivo apparente, rappresentava come un segno del destino, che lo portava a comprendere senza infingimenti, con una crudezza indifferente a ogni pietà, che non solo era finito un amore, ma, appunto, un’epoca. Non più partite a tennis seguite da squisiti cocktail, ma l’amara epifania che svelava una realtà terribile. L’eco dei discorsi fatti con i componenti della famiglia dei Finzi-Contini, delle risate e anche delle benevole canzonature scambiatesi l’un l’altro si spegneva lungo la scia di una deportazione che muoveva da un fantastico giardino per finire nelle fosche tenebre di un forno crematorio.

Nel recensire l’opera «The New York Times Review of Books» sottolineava che il giardino di quella famiglia di ebrei era come «un paradiso perduto», con tutte i suoi incanti e le sue ambiguità, un luogo in cui echeggiava il verbo miltoniano.

Quell’armonia severa che caratterizza quest’opera pervade anche gli altri due libri che formano la trilogia de Il romanzo di Ferrara, ovvero Gli occhiali d’oro e Cinque storie ferraresi. Dentro le mura. Il primo racconta la storia di Athos Fadigati, un medico trasferitosi da Venezia a Ferrara, stimato per le sue capacità e per la sua cultura, ma emarginato per la sua latente omosessualità. Un’emarginazione che si acuirà quando avrà una relazione con il bellimbusto, scapestrato ed egoista Eraldo Deliliers. Questi fuggirà con i suoi beni, dopo averlo raggirato, e Fadigati, trovatosi sempre più solo in una Ferrara che non ne vuole sapere niente di lui, arriverà al suicidio.

Altrettanto plumbea è l’atmosfera che avvolge le cinque storie ferraresi ed evocata con una prosa raffinata ed elegante. Ferrara assurge a simbolo dell’Italia intera. In questa città di provincia, infatti, solo in superficie calma e ordinata, ribolle una doppia realtà, riscontrabile in altri nevralgici contesti della Penisola. A tale riguardo il «New York Times», nel necrologio di Bassani, evidenziava che il rapporto fra lo scrittore e Ferrara richiamava quello che lega William Faulkner e Tennessee Williams con il Deep South degli Stati Uniti. Vale a dire un rapporto di grande amore, nutrito al contempo della consapevolezza che si tratta di un «amore malato», perché costantemente insidiato e minato dagli influssi malefici e nocivi della storia.

Le cinque storie ferraresi denunciano dunque due scenari complementari. Da un lato vi sono gli strascichi di una dittatura fascista in dissoluzione, che scatena per frustrazione — derivante dalla consapevole dell’imminente sua disgregazione — una violenza tanto tragica quanto inutile. Dall’altro, la reazione solo formale e non sostanziale, a questa violenza. Sul finire della seconda guerra mondiale saranno intentati processi contro i gerarchi fascisti ma, lamenta Bassani, saranno processi farsa, che non cambieranno certo il corso della storia e, soprattutto, non faranno — come si sarebbero auspicato — vera giustizia. L’autore lancia quindi un appello agli italiani, perché quello che è successo a Ferrara è accaduto anche in altri parti del Paese. Il richiamo è a non essere «distratti» e a conservare, nel segno di un fondamentale principio morale ed etico, la memoria dei pochissimi atti di coraggio che si sono stagliati in uno scenario al contrario caratterizzato da opportunismi, scelte vili e grigie ipocrisie. Atti di coraggio compiuti da coloro che avevano cercato di ribellarsi e di sottrarsi a un giogo imposto per soffocare ogni forma di libertà e reprimere ogni anelito di pace.

di Gabriele Nicolò