Un mondo capovolto

Un mondo capovolto

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23 marzo 2020

Quando l’emergenza-covid 19 sarà finita — è la domanda che ci facciamo in tanti — saremo migliori di oggi? Cosa avremo imparato da questa drammatica esperienza che, per gravità e diffusione, ormai viene paragonata a una vera e propria guerra mondiale?

Difficile rispondere. Ma una cosa pare evidente. In questo momento quasi un miliardo di persone in tutto il mondo sono confinate in casa, per arginare la pandemia di coronavirus che ha già fatto oltre undicimila vittime e sta devastando l’economia in tutti i continenti. Stanno saltando tanti paradigmi che sembravano consolidati, visioni del mondo ritenute inamovibili come dogmi. E una consapevolezza nuova si sta facendo strada: la globalizzazione — questa globalizzazione che uccide — va ripensata dalle fondamenta.

Una settimana fa ho ricevuto, via cellulare, un video, artigianale ma commovente, della durata di una ventina di secondi. Prende la parola padre Davide Sciocco, missionario del Pime: «Sappiamo che questo è un periodo molto difficile per l’Italia, che ha sempre aiutato la Guinea Bissau. In questo momento vogliamo essere noi ad aiutare voi, con la nostra preghiera». Al che un gruppo di giovani e adulti, in coro, esclama sorridendo: «Andrà tutto bene!». La Guinea Bissau, al momento in cui scrivo, non ha registrato casi di contagio da coronavirus, tuttavia non la si può certo definire un’isola felice: anche lì aeroporti e frontiere sono stati sigillati, chiuse le scuole, sospese tutte le attività ecclesiali. Non c’è un piano di lotta al virus e mancano i centri di cura. Ma, ancor più grave, è il fatto che il Paese, come ciclicamente accade da anni, vive una fase di enorme incertezza politica. Dal momento che l’attuale governo non è riconosciuto ufficialmente, la Guinea Bissau non può ricevere aiuti internazionali. In un quadro tanto fosco, stupisce che la gente non perda il sorriso e tenga aperto il cuore a chi, come noi italiani, si trova alle prese con un’emergenza sanitaria senza precedenti.

È il mondo capovolto che — imprevedibilmente e provvidenzialmente — il coronavirus ci sta facendo sperimentare: il Sud (povero economicamente, ma non di umanità) che aiuta il Nord. Un Nord che continua a vantare un Pil invidiabile, ma che sta conoscendo da tempo uno sfilacciamento, speriamo non inesorabile, del senso di comunità. Sul suo profilo Facebook, Laura Silvia Battaglia, giornalista esperta di Medio oriente, il cui marito è yemenita, pochi giorni fa ha scritto: «Mi sono arrivati messaggi da amici di tutto il mondo: yemeniti, iracheni, libanesi, somali, americani, tedeschi, messicani, austriaci, inglesi, belgi, cechi, di preoccupazione, affetto, solidarietà per me, la mia famiglia e per l’Italia. Per la prima volta, davvero, siamo dall’altra parte della barricata, mentre il mondo sta a guardare e, per chi sa farlo, a pregare».

È il mondo capovolto, nel quale stiamo vedendo alcune ong abitualmente impegnate in Africa (dal Cuamm-Medici con l’Africa ad Emergency), mettere le loro energie e competenze a fianco dei medici italiani in trincea. O forse, più semplicemente, siamo in presenza di una “globalizzazione della solidarietà” che, come la terza guerra mondiale di cui parla il Papa, procede “a pezzi”. Ma, a differenza di quest’ultima, non fa notizia.

Eppure di storie sorprendenti ce n’è, eccome. Da don Ottavio Villa, un sacerdote di Lecco, qualche giorno fa ho ricevuto quest’altro messaggino via Whatsapp: «Don Mario, sacerdote cinese che in più occasioni ho ospitato, mi ha chiamato comunicandomi che la sua comunità sta raccogliendo soldi per acquistare mascherine da spedire alla nostra parrocchia! Un’amicizia grata e sorgente di carità, che non può non commuoverci».

Anche nel seminario teologico internazionale del Pime di Monza si sta sperimentando concretamente la forza della carità cristiana, che non conosce confini. Il preside dello Studio teologico, padre Gianni Criveller lo ha raccontato sul sito di «Mondo e Missione»: «Affrontiamo la crisi del coronavirus anche grazie alla solidarietà degli amici di Hong Kong, che ci hanno inviato migliaia di mascherine così necessarie per proteggerci e introvabili in Italia». Una testimonianza di dedizione che ha creato forti legami e seminato affetto autentico, divenuto ancor più evidente nel tempo del bisogno.

Nel seminario di Monza una sessantina di giovani, provenienti da una dozzina di Paesi, si preparano per diventare missionari “ad gentes”. Vengono, in molti casi, da zone dove i sistemi sanitari (pensiamo al Bangladesh o al Camerun) non sono certo paragonabili per efficienza a quello italiano, zone dove le epidemie, dal morbillo a Ebola, non sono infrequenti. E tuttavia, in questo caso, il mondo si è capovolto: oggi sono i seminaristi a ricevere telefonate preoccupate dai genitori, che spesso vivono in villaggi poverissimi e si sono sempre — sin qui! — percepiti come estremamente vulnerabili, a differenza degli occidentali “al sicuro”.

Domenica 22, all’Angelus Papa Francesco ha richiamato la Chiesa e tutti gli uomini e le donne di buona volontà: «Alla pandemia del virus vogliamo rispondere con la universalità della compassione, della tenerezza». Ebbene. Se anche in futuro continueremo a concepire la globalizzazione come un fenomeno essenzialmente economico (tanto che, come ora accade, permettiamo la libera circolazione delle merci ma non delle persone), non avremo imparato molto dalla terribile lezione di questi drammatici giorni. Se continueremo a pensare ai continenti extraeuropei in termini di sfruttamento (serbatoi immensi di manodopera a basso costo) o di cupidigia (mercati potenzialmente vastissimi da inondare di prodotti made in Europe), l’uragano-covid 19 non ci avrà insegnato nulla. Se, al contrario, riscopriremo che tutto è connesso e che «nessun uomo è un’isola», allora le tante vittime del coronavirus non saranno morte invano.

di Gerolamo Fazzini