Il Pastore e l’ecclesiologia dantesca

Un’idea di Chiesa

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23 marzo 2020

Il rapporto tra l’Alighieri e i Papi


Il 28 marzo 2013 Papa Francesco, rivolgendosi al clero di Roma, affermò con forza: «Questo vi chiedo: di essere pastori con “l’odore delle pecore”, pastori in mezzo al proprio gregge, e pescatori di uomini». Nel nome di Papa Francesco si aprono queste note che vogliono ricostruire l’idea di Chiesa che Dante Alighieri formulò nella sua opera, ma soprattutto vogliono ricostruire l’operato di quei Papi che tradussero il culto di Dante nella loro concreta missione di Pastori del gregge di Cristo. Pastore è la parola-chiave che apre la profetica ecclesiologia dantesca.

Non solo nei versi sopracitati il sostantivo è riferito esplicitamente al Papa, chiamato anche «sommo pastore» (Paradiso, vi, 17), ma anche è usato nella complessa metafora di Paradiso, xi, 131, in riferimento a san Domenico, che, attraverso la regola da lui dettata, guida i domenicani rimasti fedeli al suo insegnamento e al suo esempio. L’appellativo qualificante Pastores, nel pensiero di Dante, ha un valore eminentemente morale e teologico.

Da ciò deriva la sua concezione antiteocratica e antiierocratica espressa nell’opera Monarchia. Avversando gli scritti che giustificavano ed esaltavano la potestas directa in temporalibus, riaffermata da Bonifacio VIII e Clemente v, Dante sostiene che il Vicario di Cristo non può superare i limiti della giurisdizione ricevuta. Egli riceve, con l’ufficio suo proprio, un ambito di competenza che non lo identifica con Colui che quell’ufficio gli ha affidato (e l’argomento più importante è il rifiuto di Gesù davanti a Pilato della potestà terrena, Monarchia, III, XV, 5). Anche considerando la donazione di Costantino, illegittima per Dante, secondo il dettato evangelico, essa avrebbe dovuto essere amministrata, destinandone i frutti a favore dei Poveri.

Il ruolo che la Chiesa dovrebbe avere nel mondo si inserisce nella “forma” del mondo che Dante configura. Mentre nel nostro presente concepiamo il mondo come caos, totalmente privo di senso religioso, secondo Romano Guardini l’immagine dantesca del mondo «può valere proprio come paradigma per la rappresentazione di un mondo oggettivamente ordinato e saturo di significato. Nel tutto come nel particolare esso è pensato e pianificato da Dio». Pertanto i due ordinamenti in cui ha luogo l’umana convivenza sono quello statale e quello ecclesiastico: imperium sacerdotium.

Entrambi sono intangibili e scaturiscono dalla volontà divina: l’imperium deve regolamentare le cose terrene, il sacerdotium annunciare le verità della Fede, regolare la vita secondo i precetti cristiani, guidare alla santità, preservare la libertà dello spirito nel mondo. Al trattato teorico, alla controversia dottrinale, si aggiunge l’accorato appello della Lettera ai Cardinali (Epistola xi).

Definendo se stesso la più piccola delle pecorelle che si nutrono nei pascoli di Gesù Cristo, Dante invoca il ritorno a Roma della Sposa di Cristo e, citando ripetutamente Geremia si fa interprete dell’intera Cristianità. Siamo nel 1314, negli anni degli ultimi canti del Purgatorio, in cui, manifestando la missione di testimonianza che proprio a lui era stata affidata e presentando in rapidi scorci la storia e la natura della Chiesa, Dante si fa Profeta della sua epoca, come Virgilio, con la iv Egloga lo era stato della propria, affinché, con la conoscenza del passato e il presentimento del futuro, si potesse tentare l’avvio dei Cristiani e della Chiesa verso un migliore itinerario, l’itinerario verso Dio.

Il papato che Dante sperimentò nella sua vita aveva dilatato paurosamente le sue competenze, portando la Chiesa ad occupare territori non propri; da qui quell’empito di rinnovamento ecclesiale che pervade tutta la sua opera, e, in particolare, la cantica del Paradiso.

Come ricorda lo storico Paolo Brezzi, «nel Medioevo il termine e il concetto di ecclesia non indicava solo la società religiosa cattolica, ma l’intero gruppo civile umano, perché quest’ultimo formava una christiana respublica e quindi aveva unità d’intenti con la prima e i capi dell’una erano responsabili dell’andamento dell’altra». Pertanto tutto il XIII secolo fu pervaso da movimenti riformatori, in particolare il profetismo di Gioacchino da Fiore e la configurazione della Ecclesia spiritualis, generatasi nel mondo francescano e nella riflessione di Pietro di Giovanni Olivi, ascoltato da Dante presso lo Studium dei Francescani a Santa Croce (cfr. Convivio, ii, XII, 5-7). Contro la decadenza della Chiesa mondana, contro i compromessi col denaro e la cupidigia terrena, Dante si sente incaricato di una missione che non conoscerà scadenze e che riceve dal primo Papa, da san Pietro: «e tu, figliuol, che per lo mortal pondo/ ancor giù tornerai, apri la bocca,/ e non asconder quel ch’io non ascondo» (Paradiso, XXVII, 64-66).

Presentando le vite mirabili dei primi Vescovi di Roma, Lino, Anacleto, Sisto, Pio, Calisto, Urbano (Paradiso, XXVII, 41-44) ai suoi lettori, ma anche e soprattutto ai Papi che verranno, nella gloria del paradiso Dante afferma l’ideale della Chiesa spirituale, povera, perseguitata ma proprio per questo davvero simile al Cristo crocifisso: «Se ‘l mondo si rivolse al cristianesmo, diss’io, sanza miracoli, quest’uno/ è tal, che li altri non sono il centesmo:/ ché tu intrasti povero e digiuno/ in campo, a seminar la buona pianta / che fu già vite e ora è fatta pruno» (Paradiso, XXIV, 106-111).

Non è un caso che la missione, di cui Dante si sente investito, si connoti secondo i canoni dell’umanesimo e non è un caso che i primi seguaci saranno Papi umanisti, cultori di Dante.

Recentemente il saggio di Valentina Merla, Papi che leggono Dante. La ricezione dantesca nel magistero pontificio da Leone XIII a Benedetto XVI(2018), ha ricostruito il culto di Dante da parte dei Papi della modernità, partendo dal 1870, l’anno della fine della potestas directa in temporalibus. Gli eventi della storia del secolo XIX, ma anche del secolo XX, hanno indubbiamente determinato la “svolta” nella considerazione del rapporto Dante-Papi, rapporto gravato da pregiudizi laicisti, soprattutto nel contesto culturale della prima metà dell’Ottocento, con un Dante “padre della patria” in versione anticlericale; eppure la questione, che ancora necessita di ricerche e approfondimenti, dovrebbe essere inquadrata nella sua precisa genesi “umanistica”, considerando Dante l’archetipo dell’umanesimo cristiano. Intendiamo con questa espressione la sintesi estetico-teologica così come essa rampolla in tutta l’opera, ma soprattutto nella Commedia, attraverso l’incontro della tradizione ebraico-cristiana con la tradizione greco-latina. L’interconnessione tra cultura e fede genera un progetto culturale che solo i Papi umanisti potevano elaborare, promuovendo la letteratura e tutte le arti e realizzando un’etica della nobiltà umana, attraverso l’incontro e non lo scontro tra la filosofia antica e la teologia cristiana, come già Tommaso d’Aquino, con il suo aristotelismo cristiano, aveva reso possibile, ma che Dante “traduce” nella morale, nel diritto, nella politica, nel percorso di vita di ciascun Cristiano.

I manoscritti chigiani della Biblioteca Apostolica Vaticana e i documenti dell’Archivio Chigiano dimostrano che Pio ii (Enea Silvio Piccolomini) e Alessandro VII (Fabio Chigi) “lessero” l’opera di Dante, riproponendo in Curia lo spirito, la virtute e la canoscenza del cenacolo umanistico-cristiano nato a Ravenna intorno a Dante, nei suoi ultimi anni di vita.

Conseguentemente le radici dell’albero ben alto, i cui rami arriveranno fino alla Lettera Apostolica Altissimi Cantus di Paolo VIe anche oltre, fino a Papa Francesco, vanno cercate nel fertile terreno dell’umanesimo cristiano, un modello culturale che ha attraversato un intero millennio e che ha visto progressivamente realizzarsi la Chiesa profetizzata da Dante Alighieri.

di Gabriella M. Di Paola Dollorenzo