La lezione di Jesse Owens a quarant’anni dalla morte

Sudore e sacrificio

Luz Long e Jesse Owens in una tavola di Lorenzo Conti (da «Eterni secondi» di Rosario Esposito La Rossa, Einaudi Ragazzi, 2019).jpg
30 marzo 2020

In una sola frase, secca e perentoria, esprimeva la sua filosofia: «Arrangiarsi per vivere». Del resto, non poteva essere altrimenti considerando che Jesse Owens, l’atleta statunitense di colore passato alla storia per aver vinto quattro medaglie d’oro ai Giochi olimpici di Berlino nel 1936, proveniva da una famiglia molto umile e aveva sperimentato sin da bambino i rigori e le privazioni imposte dalla povertà, per superare la quale servivano sacrificio e sudore.

A quarant’anni dalla morte (31 marzo 1980) è ancora ben viva e coinvolgente la lezione da lui impartita attraverso una testimonianza nutrita di pazienza, coraggio e ferrea determinazione. Infatti non era stata solo l’indigenza a condizionare pesantemente il suo ingresso nel mondo dello sport (riusciva ad allenarsi solo dopo che, uscito da scuola, aveva fatto il suo turno di lavoro in un negozio di scarpe dove riusciva a guadagnare qualche soldo): essendo di colore, aveva dovuto combattere razzismo e discriminazione.

Alla luce di questo scenario, i giovani d’oggi non possono non trovare in Jesse Owens un esempio illuminante di forza e volontà nel superare gli ostacoli che spesso si frappongono al conseguimento di un obiettivo. Owens eccelleva come velocista e nel salto in lungo. Una volta un cronista gli chiese come e quando aveva capito di essere dotato in queste due discipline in realtà non proprio affini. Owens rispose che per prendere il bus per andare a lavorare doveva ogni giorno correre: se lo avesse perso, non sarebbe stato puntuale al lavoro, e questo non se lo sarebbe perdonato. Corri oggi e corri domani, comprese che poco ci mancava che egli fosse più veloce del bus.

E il salto in lungo? A forza di cercare di saltare, sin da giovanissimo, tanti ostacoli, aveva sviluppato — disse Owens con amara ironia — una grande capacità di spiccare un salto che gli avrebbe permesso di superare e di lasciarsi alle spalle ogni difficoltà.

Che per i giovani Jesse Owens possa rappresentare un saldo riferimento cui ispirarsi lo conferma uno dei più grandi atleti della storia, il connazionale Carl Lewis, anch’egli vincitore di quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi (Los Angeles, 1986). «Avevo tredici anni — racconta Lewis — quando, vedendo le immagini, tanto sbiadite quanto eloquenti, di Owens che volava su quella pista di Berlino, rimasi folgorato. E nell’approfondire la sua storia, così segnata da odiosi pregiudizi ma da lui superati confidando nel suo talento e nel suo amore per la vita, ho imparato che se si vuole raggiungere un risultato, soprattutto se è particolarmente ambizioso, bisogna soffrire. E quando alle Olimpiadi di Los Angeles ho vinto, come lui, quattro medaglie d’oro, il mio pensiero, ricco di gratitudine, è subito corso a quel Jesse che avevo preso a modello».

Jesse Owens dovette subire le sferzate della discriminazione razziale sia in Germania, in particolare a Berlino, sia negli Stati Uniti, in particolare a New York. Sotto gli occhi di Hitler, non solo si aggiudicò la medaglia d’oro, ma batté in finale due atleti tedeschi, considerati «la perfetta incarnazione» della razza ariana e per giunta dati per favoriti. Sui cento metri superò Erich Borchmeyer, e nel salto in lungo Luz Long. Si racconta comunque che quest’ultimo, rimasto impressionato dalla forza del rivale, gli avesse consigliato di prendere la rincorsa un po’ più indietro per evitare che il suo salto, come era già successo, potesse essere giudicato nullo. Questo consiglio, tanto inaspettato quanto prezioso, fu dato da Long all’ultimo salto: quello che avrebbe dato a Owens la medaglia d’oro. Le cronache dell’epoca raccontano che dopo quel salto Hitler, indispettito o, meglio, indignato, avrebbe lasciato la tribuna dello stadio, dove si era accomodato, convinto di assistere al trionfo degli atleti di razza ariana.

Ma anche a New York, dove pure, al suo ritorno da Berlino, fu festeggiato con grande sfarzo e partecipazione di popolo, Jesse Owens dovette subire l’offesa e l’affronto di scelte dettate dalla discriminazione. Tristemente esemplare, al riguardo, è quanto accadde in occasione del ricevimento, dato in suo onore, al Waldorf Hotel. Non gli fu permesso di entrare dalla porta principale — come ricorda John Ashdown in un articolo sul «Guardian» — e per raggiungere il secondo piano, dove era stata organizzata la festa, dovette prendere l’ascensore per il trasporto merci. Gli fu insomma negato di entrare nell’ascensore a uso delle persone.

E le quattro medaglie d’oro vinte nella capitale tedesca non furono un motivo valido — ricorda sempre John Ashdown — perché il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt gli inviasse un telegramma di congratulazioni. Solo nel 1976, a parziale risarcimento dei torti commessi, le autorità americane decisero di conferire a Owens la Medaglia della Libertà, il più alto riconoscimento, negli Stati Uniti, per un civile. Se lo era proprio meritato.

di Gabriele Nicolò