Cronache dal nichilismo - VI

La gratitudine di essere nati

La gratitudine di essere nati
24 marzo 2020

Questi giorni danno nuova prospettiva all’interrogativo sull’assurdità o la sensatezza delle nostre vite

 

L’angoscia di questi giorni di pandemia sta portando a galla, in tutta evidenza, la trama nichilistica che segna da cima a fondo il nostro modo di concepire noi stessi e la realtà. Ma dall’altro lato sta mostrando di colpo, con altrettanta evidenza, che il nichilismo non è forse più all’altezza della crisi che stiamo vivendo nel nostro tempo. Sono proprio le domande che nascono dall’angosciante emergenza sanitaria a mostrare che l’assetto nichilistico della vita e della cultura, della politica e della società, sta implodendo dall’interno. Il cerchio si spezza e rinascono gli interrogativi. E non rinascono per forza di analisi — questa è la svolta culturale — se è vero che molte volte il surplus di analisi rischia paradossalmente di mettere a tacere le domande più importanti e di mancare il punto decisivo della situazione. Perché il punto siamo noi stessi e gli interrogativi rinascono come la “forma propria” del nostro essere al mondo.

L’impressione è che qualcosa stia cedendo, e noi ci scoprissimo incapaci di sostenere con le categorie abituali l’urto di una realtà imprevedibile: un virus patogeno che non si lascia afferrare, ma che piuttosto ci afferra e ci “tiene” drammaticamente, dilatando l’idea del contagio dall’infezione alla più generale sospensione della normalità della vita. Ma ciò che in fondo continua a essere imprevedibile e incontrollabile — pur attraverso tutte le doverose strategie di contenimento — è il nostro stesso esistere. Questo tempo di pandemia non ci costringe solo a fare i conti con nuovi, drammatici problemi della nostra esistenza individuale e sociale, ma a comprendere — vivendolo — che la nostra stessa esistenza “è” un problema radicale che cerca una risposta adeguata. Il problema della felicità, ossia l’interrogativo sull’assurdità o la sensatezza del nostro essere al mondo.

Ciò che sembra diverso, oggi, è che queste domande tornino a essere poste, seppur confusamente, come una competenza personale: non possiamo più accontentarci di assumere il significato di noi stessi, del nostro lavoro, delle nostre aspettative, dei nostri progetti, come dei vestiti o dei codici forniti dalla grande macchina della cultura dominante, che ha sempre la pretesa — non certo disinteressata — di dirci chi siamo e cosa dobbiamo desiderare e raggiungere nella vita. Ecco, oggi queste domande tornano a essere in prima istanza “nostre”: domande in prima persona.

Ma per capire di più la posta in gioco partiamo dal contraccolpo “metafisico” (se si può chiamare così) che sta segnando ciascuno di noi. È come se d’un tratto prendessimo coscienza del mondo che, fino a poche settimane fa, abitavamo quasi automaticamente e ci accorgessimo della sua presenza proprio nel momento in cui esso diviene sempre più deserto e minaccioso, come una scena teatrale da cui siano scomparsi gli attori, rifugiati tra le quinte. E torna quell’idea molesta, il più delle volte esorcizzata con mille cose da fare: l’idea che noi siamo destinati a finire. Non è un semplice memento mori: quello lo conosciamo fin troppo bene. E non è neanche un’ipocondria da depressi, dovuta alla restrizione delle nostre attività. Molto di più: è l’affacciarsi della coscienza della nostra finitezza. Ed è qui che il nichilismo gioca tutte le sue carte, ma alla fine rischia di ritrovarsi senza più carte da dare.

Noi per lo più identifichiamo la finitezza dell’esistenza con la nostra mortalità. Ma la morte non è la mera cessazione biologica della vita, bensì è la dimensione più propria con cui ciascuno di noi si rapporta a se stesso e agli altri, alla natura e alla storia. Quello che Heidegger ha chiamato l’«essere-per-la-morte» che appartiene in modo costitutivo alla nostra vita. E dunque, se la finitezza è legata alla nostra mortalità, come condizione ontologica del vivere, vuol dire che tutti noi siamo segnati da una insuperabile “impossibilità”. Tutte le nostre possibilità — progetti, azioni, transazioni, costruzioni — non riusciranno mai infatti a “compiere” la nostra vita. Ne è segno il fatto che ogni volta che crediamo di aver raggiunto un compimento attraverso le cose che siamo riusciti a “fare” immediatamente nasce — tacita o esplicita — un’insoddisfazione più profonda, perché nessuna nostra realizzazione può mai colmare il nostro desiderio di felicità. Sarebbe troppo poco.

Non è un caso che lo stesso Heidegger (in Essere e tempo, 1927) ha sottolineato un fenomeno che avrà un enorme successo nella comprensione della condizione umana del Novecento, vale a dire l’«angoscia», una sorta di spaesamento di fronte all’impossibile, lì dove le cose non ci parlano più, il mondo si rifiuta di dirci il suo senso e il nostro essere scolora nel «nulla». E proprio questo nulla sarebbe l’estremo nome che per Heidegger possiamo dare al mistero dell’essere, per salvaguardarlo dalle nostre rappresentazioni soggettive e dalla nostra continua tendenza a identificare la verità con i prodotti delle nostre «macchinazioni».

Si badi che non stiamo parlando solo di filosofemi astratti, ma della stoffa della nostra coscienza quotidiana, di quella sensibilità metafisica per sé e per il mondo che muove dall’interno la nostra esperienza di esseri coscienti (infinitamente più ampia del nostro essere studiosi di filosofia). Ma cosa vuol dire che noi non siamo semplicemente ciò che riusciamo a fare (di noi stessi e del mondo), ma più al fondo siamo consegnati alla nostra stessa “impossibilità”? Che siamo essere finiti, certo. A ben pensarci, però, il concetto di finitezza non allude solo al fatto che siamo esseri-per-la-morte, ma anche — e ancor prima — che siamo esseri che sono “nati”.

È quello che ha richiamato Hannah Arendt, individuando nella «natalità» il tratto caratterizzante del nostro essere al mondo. L’esser-nati non è infatti solo un evento del nostro passato, ma una dimensione permanente della nostra esistenza, sempre chiamata a «iniziare» qualcosa, a mettere in atto le sue possibilità, e soprattutto a realizzare se stessa, non perché capace di farlo (chi è mai all’altezza dell’essere?), ma perché ha ricevuto in dono se stessa. Come la Arendt scrisse nel 1965 a Karl Jaspers, «essere fedeli alla realtà delle cose, nel bene e nel male, implica un integrale amore per la verità e una totale gratitudine per il fatto stesso di essere nati». Solo questa gratitudine può vincere l’angoscia e il rancore per il fatto che le cose se ne vanno (lo aveva notato Alain Finkielkraut in un bel libro-intervista di qualche anno fa intitolato appunto L’ingratitude). Ma la gratitudine dipende dall’accorgersi di essere nati, di essere figli di qualcuno, cioè di portare in sé la promessa profonda dell’inizio.

Molti di noi in questi giorni hanno davanti agli occhi la testimonianza dei tanti medici e infermieri che stanno letteralmente dando la vita rispondendo alla chiamata di aiuto dei pazienti di coronavirus. Ma noi ridurremmo questa loro azione vedendola solo come un eroico atto di volontà, quando invece queste persone ci richiamano a quella gratitudine di essere nati che è come l’inizio dell’alba, il chiarore che si diffonde inaspettatamente nel buio della prova. Di quella prova che è la vita, nel suo nascere ogni momento.

di Costantino Esposito