Il valore del silenzio

HEALTH-CORONAVIRUS/ITALY
24 marzo 2020

Dopo quanto tempo il silenzio in una conversazione genera imbarazzo? Lo psicologo olandese Namkje Koudenburg ha proposto una stima sorprendente: appena quattro secondi. Un dato che suggerisce la portata sconvolgente di un altro silenzio, quello imposto dal coronavirus alla “conversazione sociale” che è la nostra vita urbana. Un effetto collaterale che i grandi mezzi di informazione iniziano a registrare. L’inquinamento acustico è crollato. Sui siti web dei giornali locali compaiono video che mostrano luoghi famosi nel mondo e perennemente affollati ora ridotti a deserti, annotando la scomparsa di rumori che ormai facevano parte dello scenario acustico quanto il profilo di un monumento identifica un panorama.

«La colonna sonora delle ruote dei trolley dei turisti sui masegni — scrive “la Nuova Venezia” —, delle sirene delle grandi navi, delle canzoni in gondola è scomparsa. Anche il sibilo dei gabbiani sembra diventato più sordo». E sul «Corriere Fiorentino» l’abate di San Miniato al Monte rende bene la prospettiva unica dalla basilica che sovrasta il capoluogo della Toscana. La prospettiva di un silenzio irreale. «Siamo soliti percepirlo in questa radicale intensità solo la domenica mattina molto presto oppure all’alba del primo giorno dell’anno», scrive padre Bernardo Gianni. Che traccia un sapiente parallelo con la vita monastica: «L’inedita estensione dei perimetri del nostro monastero a tutta la città, immersa in una surreale quiete che la sottrae alla convulsa frenesia dei tempi abituali e che la invita alla meditazione e all’esercizio della lettura e di composto e civile dialogo su un destino finalmente percepito come comune».

Dunque questo grande silenzio è imbarazzo, come in una discussione che non decolla, o è spazio di pensiero da riscoprire? La scienza esalta gli effetti positivi del silenzio sul cervello e i rischi dell’eccessivo rumore che, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, è causa di disturbi cardiovascolari per migliaia di persone. Una ricerca del 2006, pubblicata sulla rivista medica «Heart», ha cercato di misurare gli effetti dell’ascolto della musica sul corpo umano e si è trovata di fronte a una scoperta inattesa. I ricercatori avevano inserito in modo casuale tra i diversi brani ascoltati dai soggetti esaminati una pausa di due minuti di silenzio: nessun brano di musica “rilassante” aveva effetti positivi sulla pressione sanguigna e la circolazione del sangue nel cervello quanto quel momento inatteso di silenzio.

Eppure, in questi giorni di tempo sospeso, è stato letto come unanime segno di reazione alle avversità il fenomeno dei “flash mob” musicali che hanno spinto milioni di italiani ad affacciarsi alla finestra e suonare o cantare, partecipando a un catartico rito collettivo. Come se il silenzio delle città, o meglio il volume abbassato dei loro echi ridotti a rumore di fondo, fosse il segno più tangibile dell’ansia collettiva da virus. Un silenzio collettivamente “imbarazzante” da riempire con nuovi suoni.

Forse, per annodare le fila di queste contraddizioni, dobbiamo fare ricorso alla poesia. Quella di Alejandra Pizarnik, poetessa argentina che ha saputo tradurre il silenzio in parole: «C’è il silenzio di un grande odio / e il silenzio di un grande amore / e il silenzio di una profonda pace dell’anima». L’assenza di suoni, dunque, non è mai uguale a se stessa. E anche il citato esperimento medico lo confermava: l’effetto di rilassamento della pausa tra una canzone e l’altra era maggiore del silenzio precedente all’ascolto della musica. Come se il nostro cervello per apprezzarlo appieno abbia bisogno di stimoli. Abbiamo bisogno dell’esperienza dei decibel per capire il vuoto e di consapevolezza per scegliere di viverlo davvero senza correre a riempirlo. La prossima sfida sarà ricordarci del valore del silenzio quando i decibel saranno tornati.

di Giuseppe Marino