Il primo aprile 1920 nasceva l’attore giapponese Toshiro Mifune

Il samurai antieroe

Toshiro Mifune nel film «I sette samurai» (1954)
31 marzo 2020

Era forse destinato a diventare un predicatore quel bambino che il i° aprile 1920 nasceva in una modesta casetta di legno, in Cina, figlio di genitori giapponesi, metodisti, trasferitisi nella provincia dello Shandong, per motivi missionari. Il padre, Tokuzo Mifune, di mestiere fotografo, successivamente trasferì la famiglia in Manciuria, e il piccolo Toshiro, oltre che frequentare la scuola e divenire perfetto bilingue, il pomeriggio si tratteneva nel laboratorio paterno per scoprire i misteri della fotografia.

Il secondo conflitto mondiale, con la repentina invasione nipponica della Cina orientale, vede il ventenne fotografo Toshiro Mifune cooptato dall’aviazione militare occupante, con il grado di caporale, a scattare foto dall’alto. A fine guerra la famiglia è rimpatriata in Giappone, e Toshiro conosce un Paese dilaniato dalle atomiche, dalla crisi economica e dalla vergogna nazionale per la sconfitta dell’“impero dove il sole non tramonta mai”. Tramite un amico arriva agli studi cinematografici di Toho, a Tokio, e lavora saltuariamente come assistente operatore.

Un giorno si presenta a un provino per attori, ma viene scartato. Si dice che il regista Akira Kurosawa, presente, invece rimanesse colpito dalla performance. Alcune settimane dopo lo chiamava per il suo L’angelo ubriaco (1947): segnerà l’esordio di Toshiro Mifune nel ruolo di co-protagonista. Il secondo film, per la regia di Akira Kurosawa, con il quale Mifune inizia un sodalizio che durerà per vent’anni è Rashomon (1950). Ambientato nel medioevo nipponico, in un’atmosfera di post guerra e devastazione (rimando al Giappone coevo), Rashomon è un giallo non risolto tra un bandito e un samurai, che rimarrà ucciso nel bosco, e la moglie di questi: tre testimoni raccontano tre “verità” diverse. Rashomon è forse il più riuscito esempio di racconto con “punto di vista mobile” all’interno della diegesi novecentesca, e non solo cinematografica, autentica “opera aperta”. Il Leone d’Oro a Venezia 1951, grazie alla nipponista Giuliana Stramigioli, che lo segnalò alla Mostra, ne decreterà il successo internazionale, cui seguirà l’Oscar, segnando al contempo il riscatto culturale di un popolo sconfitto. Qui Mifune è il bandito Tajomaru, che pare assalti, armato di spada, i viandanti mentre attraversano il bosco. Così accade a un mite samurai e alla sua bella moglie.

La recitazione di Mifune conquistò il pubblico mondiale: eloquio minaccioso dal tono alto, risata sarcastica, movenze plastiche e feline nelle radure e tra gli alberi e i sentieri del bosco; il grattarsi la corta e rada barba prima di una risoluzione; lo sguardo fisso sul nemico o sulla vittima. Tajomaru, di volta in volta, coraggioso o sbruffone o codardo, secondo il testimone che racconta, inaugurava l’antieroe anticipando molto cinema occidentale.

Quattro anni dopo Kurosawa realizza, secondo alcuni, uno dei maggiori capolavori “di tutti i tempi”, I sette samurai (1954). Siamo sempre nel medioevo nipponico. I contadini di un villaggio, per difendersi dalle continue scorrerie dei banditi, assoldano, con le poche monete rimediate, sei samurai per difendersi. Un ex contadino, armato di spada, con falso certificato di nobiltà, Kikuchiyo (Mifune) cerca in tutti modi di farsi accettare dal maestro samurai capo del gruppo, volendo sì combattere ma, soprattutto, entrare poi nel rango dei samurai. Memorabile il monologo di Mifune nella scena in cui, quasi da avvocato, perora la causa dei contadini, muovendosi nel piccolo interno di legno come un animale in gabbia, con la camera che lo segue in ppp, in controcampo sui samurai seduti sul pavimento: «Voi non vi fidate dei contadini, ma per anni loro sono stati aggrediti, hanno bruciato le loro case, hanno violentato le loro donne (…) da voi samurai al servizio dei nobili». Improvvisamente, dopo il tono forte ecco che si accascia e inizia, inaspettatamente, a piangere.

Successo planetario, tanto da costringere Hollywood a realizzare il remake western, I magnifici sette ( J. Sturges, 1960), anch’esso film di successo.

Altro indimenticabile personaggio di Mifune è il capitano Washizu. Accecato dal potere, non esita a uccidere, istigato da una perfida moglie (finirà pazza), anche il suo amico del cuore, il capitano Wiki, per diventare il Signore di tutta la Provincia: Trono di sangue (1957, tratto liberamente dal Macbeth di Shakespeare), sempre di ambientazione medievale. Memorabile la scena in cui Mifune sguaina la spada e, preso dalla follia, cerca di colpire lo spirito (ma è un fantasma), che lo sta mettendo in guardia denunciando la sua vana sete di potere, fendendo colpi nel vuoto, nella sala di fronte ai suoi ufficiali attoniti.

La quadrilogia medievale ideale si può far chiudere con Yojinbo (“La sfida del samurai”, 1961). Ambientato nel 1860, periodo in cui i samurai non sono più ricercati dai nobili, narra di un samurai disoccupato che tenta di vendere la sua abilità nel combattere a una o all’altra delle due fazioni avverse, di un villaggio. I personaggi e la struttura narrativa, nonché il set, rinviano al modello del pistolero solitario del western, come del resto la musica. L’incipit, leggermente parodistico, di Yojinbo che attraversa il villaggio, a piedi, nella via centrale, per affrontare una banda di avversari anticipa, in parte, addirittura Sergio Leone.

Mifune recita nei film di Kurosawa sino al 1965 (ricordiamo anche Barbarossa, 1965), poi tra i due l’amicizia s’interrompe, per gelosie reciproche, per riprendere dopo trent’anni.

Sino agli anni Ottanta il pubblico vedrà Mifune sia nel cinema giapponese sia in produzioni estere: da Duello nel pacifico (J. Boorman, 1968) a Allarme a Hollywood -1941 (1979) di Steven Spielberg. Ma Toshiro Mifune, per tutti, rimane il samurai antieroe dei capolavori del cinema nipponico degli anni Cinquanta.

di Eusebio Ciccotti