La scultura di Federico Severino

Attraversando i mari dell’inquietudine

La scultura di Federico Severino
24 marzo 2020

«Quando a 17 anni andai con la mia prima sculturina in bronzo da un gallerista della mia città, Brescia, quello mi disse: bravo, ma sù, cambia, sù, non fare il figurativo». Da allora Federico Severino, classe 1953, non ha fatto che creare figure in bronzo e in altri materiali.

È lui il terzo artista, dopo Mutinelli e Riva, di cui parlo su queste colonne lungo un breve viaggio nel segno di Arturo Martini in questa arte sempre antica e nuova che si chiama scultura. Suo l’altare al Pantheon del 2017, ad esempio, che ha completato la Via crucis già allestita nel 2009. Ma soprattutto sua è una misurata, feroce quasi nel contenimento, insomma una potente e vigilata serietà.

Non ridono mai le figure di Severino, sospese come sono tra antico e attuale, figure che suonano, che guardano, che pregano, che meditano, che sono prese in un gioco o in amore, o se lo fanno sembrano impegnate in qualcosa di strenuo da cui quella gioia, magari come un filo, giunge al loro essere, al volto. La sua sfida è il bronzo, materia reinventata da Donatello e Cellini.

Severino è uomo della conoscenza. È uno degli artisti contemporanei dove il fare dell’arte è forma del sapere insieme ad abilità compositiva ed espressiva. E intendo non solo un’unione di fare e sapere inerente al campo artistico. Se di sapienza si tratta, intorno a materiali, forme e figure, non si tratta di sapienza sull’arte, ma sul mondo. Una sapienza diversa da quella solo filosofica o analitica. Una sapienza “poetante” come indica lo stesso scultore, navigatore tra filosofi e poeti, in titoli e interviste.

Le sue opere o serie di opere traggono da linfe antiche e profonde le motivazioni e la interpretazione dei temi. Oltre che da una sua personale fuga dalla malinconia. E a volte mi domando se questa fuga o contesa con la malinconia e lo Scontento (lo scrivo con la maiuscola per motivi teologici pur se teologo non sono) non sia una delle dinamiche oggi più valevoli, e generanti.

Sì, forse Severino e altri come lui, tenaci esuli dallo Scontento e traversatori dei suoi mari, danno una traccia futura, proprio mentre fin da ragazzi davano loro dei “resti del passato”. Occorre certo che tale esilio sia adeguatamente raccontato, sia adeguatamente accompagnato perché possano essere compresi i suoi semi di futuro. Dopo un secolo, il Novecento, che ha quasi incaricato l’arte d’essere, pur di esser riconosciuta, documento spesso impoverito quando non umiliato di quel che Mario Luzi chiamava “inappagamento ontologico”, cercando un risarcimento in ornatus e “artisticità”, ecco un nuovo momento in cui, accanto ai cascami di quella tendenza generale, vive una più lunga vocazione dell’arte come dura contesa allo Scontento.

Severino fa abitare le sue figure in questa contesa, non si contentano di nessun altro compito che vorrebbero assegnare loro le piccole dee del commercio artistico, l’Ironia e la Decorazione di Interni. Non un decente ornatus e una iperconcettuale “artisticità” seducono Severino e le sue opere.

Abitano lì, in quel proteso esilio, e forse non è un caso che accanto alla dimensione di lotta e di esilio — così come accadde per il nomade Ungaretti o per lo stesso Dante — si affianca una dimensione di naufragante allegria, di commedia. Abitano in tale esilio e devono obbedire a un imperio assoluto, quello che solo gli scultori e gli artisti degni di tale nome sanno, quell’imperio che Modigliani indicava nella “cosa”, lui che scultore non riuscì ad esser mai davvero per la debolezza del fiato, ma la scultura inseguì in ogni pittura. O quel che portava Cèzanne a sfidare i monelli che lo sbeffeggiavano e andava a ritrarre la stessa montagna per giorni e giorni. Quella obbedienza che segna in modo speciale gli attuali scultori. E se dovessi segnare il cammino che sto facendo tra loro direi che la Mutinelli è mano di fortissima grazia, Riva rigore di altissimo fascino e Severino è inquietudine di tempo e mistero.

Una inquietudine che pare generata da qualcosa prima di ogni concetto e possibile applicazione intenzionale, connaturata, tesa nel medesimo modellarsi. Una inquietudine generante, per così dire, come se nel gesto artistico di Severino dal fondo della modernità scoccasse la scintilla della insoddisfazione che la contraddistingue — anche per via di ironie ripiegate su se stesse e svendite mercantili — reagendo con la fiamma antica di una avventura incessante di indagine sul mistero dell’essere e della esistenza umana. E questo incontro dà luogo a un’opera che fugge a ogni previsione. Il cosiddetto figurativo, infatti, lontano da qualsiasi banale mimetismo, è il fuoco di questa inchiesta sul prender figura, forma nel tempo. Indagando, come diceva Thomas S. Eliot nei Quattro quartetti, il prodigioso fatto che «il fuoco e la rosa siano uno».

di Davide Rondoni