Un motore di crescita e uno strumento di riduzione della povertà

Africa, la grande sfida delle infrastrutture

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24 marzo 2020

In linea di principio, tutti sanno che il libero scambio delle merci rappresenta un fattore positivo per il mercato globale. Dunque, ciò vale anche per il nuovo African Continental Free Trade Area (Afcfta), entrato in vigore lo scorso 30 maggio; un’iniziativa che, almeno sulla carta, fa ben sperare. Certamente, uno dei grandi problemi da risolvere in Africa perché il libero mercato davvero decolli riguarda la scarsità di infrastrutture rispetto ad una costante crescita demografica. Si tratta di un ostacolo allo sviluppo del commercio intra-africano se si considera che nel 2018 esso rappresentava appena il 17 per cento degli scambi totali del continente e il cui volume — secondo stime dell’Eca (Economic Commission for Africa) delle Nazioni Unite — potrebbe potenzialmente aumentare grazie anche a investimenti infrastrutturali, di oltre il 50 per cento entro il 2022 (rispetto al 2010), diventando un motore di crescita e uno strumento di riduzione della povertà.

In questi ultimi anni sono state naturalmente realizzate delle opere significative, come ad esempio, il parco solare Jasper, in Sudafrica, che produce circa 180.000 megawatt orari all’anno, in grado di alimentare 80.000 case. E cosa dire del Nuovo Canale di Suez, una corsia aggiuntiva di 35 chilometri che si sommano agli originali 164 chilometri del vecchio canale. Per non parlare poi del Konza Technology City, la prima città intelligente che tenta di unire in Kenya protezione ambientale, efficienza energetica e sostenibilità economica, basandosi anche su piattaforme digitali per attivare i servizi e le funzioni tipiche di una smart city. Ciò nonostante, occorre prendere atto che il cammino è ancora lungo. A tutt’oggi, ad esempio, l’Africa sub-sahariana, nonostante le dimensioni sconfinate dei suoi territori, continua a essere nel suo complesso l’area geografica con la minore densità di rete viaria al mondo (nel 2015 le strade in asfalto rappresentavano il 25 per cento del totale), ed è la sola, tra le macrozone del Sud del mondo, dove tale termine di raffronto abbia registrato, paradossalmente, una regressione nel corso degli ultimi vent’anni.

Secondo i dati della Banca Mondiale, il 6 per cento circa della popolazione africana patisce gli effetti di un deficit infrastrutturale in ragione di una molteplicità di fattori. Da una parte, com’è noto, i processi di governance da parte della pubblica amministrazione si sono rivelati spesso deludenti; dall’altra pesano i vincoli finanziari, associati in alcuni casi alla debolezza dei sistemi normativi che scoraggiano il coinvolgimento del settore privato. Comunque, il giudizio da parte degli analisti internazionali sull’andamento dell’economia africana, alla luce soprattutto del nuovo mercato comune panafricano (Afcfta) sembra essere positivo. Uno studio pubblicato recentemente dalla società di ricerca Oxford Economics ha stimato che la spesa per consumi degli africani nel 2025 sarà il 40 per cento di quella degli statunitensi; una crescita non trascurabile se si considera che trent’anni fa era il 20 per cento di quella dei cittadini Usa. Sempre la stessa ricerca individua dieci Paesi dell’Africa occidentale e orientale nei quali i mercati di consumo avranno lo sviluppo maggiore nel prossimo quinquennio. Per esempio, in Senegal la crescita sarà dell’8,8 per cento all’anno, nella Costa d’Avorio dell’8,3 per cento, in Camerun del 7,9, in Ghana del 7,3. Queste previsioni comunque vanno decisamente prese col beneficio d’inventario, non foss’altro perché è sufficiente che crolli, improvvisamente, il prezzo del petrolio, a seguito, come è avvenuto in questi giorni, della pandemia del coronavirus, perché le economie africane entrino in sofferenza. Se guardiamo poi ai coefficienti che misurano la distribuzione del reddito e della spesa per consumi tra individui o famiglie, l’Africa risulta essere alla prova dei fatti il continente col maggior tasso di diseguaglianza, aggravato oltretutto dal fatto che il 75 per cento della sua popolazione è rappresentata dagli under 25. Senza nuove politiche di inclusione, come la creazione di posti di lavoro e soprattutto un welfare in grado di sostenere i ceti meno abbienti, facilitando ad esempio, l’accesso ai servizi pubblici, la realizzazione di infrastrutture servirà a ben poco. Non saranno dunque gli investimenti in strade, ponti e ferrovie a fare decollare da soli l’Africa, ma certamente non devono affatto essere sottovalutati perché rivestono un ruolo strategico.

Da rilevare che, a livello continentale, da circa un decennio è operativo il Programme for Infrastructure Development in Africa (Pida), un’iniziativa, lanciata a Kampala, in Uganda nel 2010 e fortemente voluta dalla Commissione dell’Unione africana (Ua), dalla Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa, dalla Banca di Sviluppo Africana e dall’Agenzia di pianificazione e coordinamento del Nepad (Nuovo partenariato economico per lo sviluppo dell’Africa). Il Pida è certamente un programma ambizioso che si articola in un quadro strategico di lungo periodo (2012-2040) finalizzato allo sviluppo delle infrastrutture continentali attraverso la realizzazione di progetti regionali integrati. Nel complesso il continente risulta diviso principalmente in quattro macrozone di investimenti: il Maghreb, l’area del Golfo di Guinea, il Corno d’Africa e l’Africa Australe, con una cosiddetta buffer zone nel centro. Il controllo dei capitali di ogni macrozona ha comunque precisi referenti internazionali a cui prima o poi pagare pegno. Emblematico è il caso della nuova ferrovia Nairobi-Mombasa, a gestione sino-keniana, che deve far fronte alle rate di ammortamento del debito di 36 miliardi di scellini contratto con la Exim Bank of China. In considerazione di quanto detto è dunque evidente la necessità di realizzare infrastrutture nel continente africano, a condizione però che queste opere siano il prodotto di una serie di nessi tra politiche sociali, sviluppo industriale, promozione di un mercato intra-africano. Una sinergia che comunque deve necessariamente rientrare nel perimetro dell’ecologia integrale, tanto cara a papa Francesco: «Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante iniquità e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri».

di Giulio Albanese