Il messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale

Sperare la pace

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02 gennaio 2020

La pace cresce sul terreno fertile della speranza. Lo spiega il messaggio di papa Francesco per la Giornata Mondiale della Pace (1° gennaio 2020). Il bello è che l’uomo non solo è capace di sperare nella pace, ma ancor di più sa che la speranza è mettersi in cammino per costruirla. Non c’è spazio per rese alle sirene della rassegnazione. La speranza fa nascere nuovi itinerari di riconciliazione, perché non si adegua al conflitto come condizione dell’umano. E, si sa, i processi vanno accompagnati nel tempo, con pazienza e determinazione. Un po’ come fa il contadino che, dopo la semina, prevede i tempi della cura (irrigare, togliere le erbacce, concimare...), se vuole sperare in un buon raccolto.

Tuttavia, la speranza non cresce da sé, come fungo isolato. Necessita di tre concimi.

Il primo è quello della memoria. Le guerre hanno rappresentato devastazioni inaudite. Hanno dimostrato violenze insensate. Hanno costruito distanze abissali. Hanno tagliato le gambe a potenziali relazioni. Hanno desertificato coscienze. Hanno inaridito culture. Papa Francesco ricorda il caso degli Hibakusha, sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki: essi continuano a tramandare, di generazione in generazione, l’orrore e le sofferenze indicibili di un evento così lontano nel tempo (agosto 1945), ma così impresso nella carne viva: sofferenze, mutilazioni, depressioni, malattie, insonnie, violenze fisiche e morali, danni ambientali... Come allora, anche oggi non si contano le vittime innocenti e i traumi derivanti dalle guerre.

Il secondo concime per la speranza è la riconciliazione. Scrive Bergoglio: «La guerra, lo sappiamo, comincia spesso con l’insofferenza per la diversità dell’altro, che fomenta il desiderio di possesso e la volontà di dominio. Nasce nel cuore dell’uomo dall’egoismo e dalla superbia, dall’odio che induce a distruggere, a rinchiudere l’altro in un’immagine negativa, a escluderlo e cancellarlo. La guerra si nutre di perversione delle relazioni, di ambizioni egemoniche, di abusi di potere, di paura dell’altro e della differenza vista come ostacolo; e nello stesso tempo alimenta tutto questo». Si tratta dunque di avviare cammini di riconciliazione dove l’altro non sia visto come rivale-nemico, ma assuma il volto del fratello. Cosa blocca questo percorso? L’illusione della sicurezza che, supportata dalla paura, avvelena i rapporti tra i popoli e impedisce il dialogo. A tal punto da sembrare sufficiente difendere qualche confine o costruire muri per sentirsi protetti. L’esempio più evidente è dato dalla corsa agli armamenti. Si pensava che l’equilibrio della paura potesse scoraggiare guerre, ma la dissuasione nucleare non ha risolto il problema dei conflitti tra popoli. Anzi, ha diffuso sospetti e alimentato la competizione a produrre armi sempre più sofisticate e costose. Al contrario, è molto più costruttivo, come ricorda il messaggio, «abbandonare il desiderio di dominare gli altri e imparare a guardarci a vicenda come persone, come figli di Dio, come fratelli. L’altro non va mai rinchiuso in ciò che ha potuto dire o fare, ma va considerato per la promessa che porta in sé».

Il terzo concime è la conversione ecologica. È un segno dei tempi, disvelato ancor più fortemente nel recente Sinodo sull’Amazzonia. C’è sete di pace laddove l’ingordigia di beni comuni produce violenza sui popoli e sulle differenti culture. Serve un nuovo modo di abitare il pianeta, di accogliere la diversità, di celebrare la vita, di esprimere la cura per un territorio, di organizzare il bene comune del pianeta. La conversione si attua a partire dall’ascolto e dalla contemplazione per diventare stile, azione, gesto, condivisione. In altri termini, si esprime come cura delle creature, non di un generico ambiente.

Ecco perché «non si ottiene la pace se non la si spera». Siamo in cammino. Non bisogna stancarsi di tracciare sentieri, invisibili alle carte geografiche di Google Maps ma riconoscibili dai cuori di carne. Ha ragione Francesco: «La cultura dell’incontro tra fratelli e sorelle rompe con la cultura della minaccia». L’umano è capace di grandi sorprese. O, come scriveva don Primo Mazzolari, «la più paurosa polveriera è la coscienza». Quando l’uomo si apre all’altro, si spalancano orizzonti infiniti. La speranza permette ogni giorno di risorgere. Di ridare fiato a cammini interrotti. Di far rialzare esistenze parcheggiate ai margini della strada. Il mondo è stanco di parole vuote: ha bisogno di artigiani della pace che non si rassegnano al peggio. Per dirla con Péguy, «Dio ci ha fatto speranza». Sotto il livello della speranza, che costruisce giorno per giorno il bene della pace, non c’è neppure umanità vera. Per questo, sperare è come proporre in ogni istante un brindisi alla vita. Un bel modo di celebrare il nuovo anno che bussa alla porta. Auguri!

di Bruno Bignami