Papa Francesco, il Giappone e la Chiesa in missione

Un desiderio che si avvera

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13 settembre 2019

«Con il tempo mi sorse il desiderio di andare missionario in Giappone dove i gesuiti realizzano un’opera molto importante da sempre». Il cardinale Jorge Mario Bergoglio confida questo suo sogno nel libro-intervista El Jesuita. È il 2010. L’arcivescovo di Buenos Aires vede avvicinarsi i suoi 75 anni, età in cui si presenta la rinuncia all’ufficio pastorale. Con i giornalisti argentini Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti accetta dunque di tracciare un primo bilancio della sua vita. E ricordando la propria gioventù e lo spirito che lo anima quando decide di entrare nella Compagnia di Gesù, subito indica l’importanza che ha nella sua scelta la dimensione missionaria, parte integrante del dna dell’essere gesuita. Un desiderio che il giovane Jorge Mario Bergoglio vedrà ora avverarsi con il suo prossimo viaggio apostolico, annunciato oggi, quando si farà pellegrino ma anche missionario nel Paese del Sol Levante, dopo averlo già visitato nel 1987.

Per i gesuiti, del resto, il Giappone ha sempre suscitato un’attrazione particolare fin da quando, nel 1549, Francesco Saverio ha messo piede in questa terra. Nei cinque secoli successivi alla prima missione, la Compagnia di Gesù non ha mai mancato di rivolgere uno sguardo privilegiato al popolo e alla cultura nipponica. Un’attenzione che, se possibile, si è anche rafforzata negli ultimi decenni considerando che due degli ultimi prepositi generali, Pedro Arrupe e Adolfo Nicolás, hanno vissuto molti anni in Giappone. E non dimenticando il grande ruolo che un gesuita, Giuseppe Pittau, ha svolto nel dialogo culturale tra Giappone e Occidente. Uno sforzo di inculturazione paziente, quello dei gesuiti, che «non confida in un rapido successo e nei risultati immediati, perché Dio va a tre miglia all’ora, cioè secondo il passo dell’uomo», come notava proprio padre Nicolás in un articolo del 2014 per «La Civiltà Cattolica» intitolato «Vivere la missione in Giappone».

Ma cosa di questo Paese lontano, oltre a quello che «appartiene» ad ogni gesuita, ha colpito personalmente il giovane gesuita argentino divenuto Papa? Una risposta la dà lui stesso quando, nell’omelia svolta a Casa Santa Marta all’inizio del suo Pontificato — il 17 aprile 2013 — parla con ammirazione della testimonianza offerta dalla Chiesa giapponese, che è rimasta viva nonostante le persecuzioni subite tra il XVI e XVII secolo. A colpire il Papa è soprattutto la forza dei fedeli laici, dei battezzati, che hanno permesso alla Chiesa di superare la tormenta. Quando i missionari tornarono, rammenta, trovarono «tutte le comunità a posto, tutti battezzati, tutti catechizzati, tutti sposati in chiesa».

Una riflessione che due anni dopo amplia ed approfondisce, ricevendo in visita ad limina la Conferenza episcopale del Giappone. Il Papa parla dell’eredità della Chiesa in Giappone che si fonda su due pilastri: i missionari che, dopo Francesco Saverio, «offrirono la propria vita al servizio del Vangelo e del popolo giapponese» e appunto i «cristiani nascosti». Quando tutti i missionari laici e i sacerdoti vennero espulsi dal Paese, osserva Francesco, «la fede della comunità cristiana non si raffreddò. Anzi, i tizzoni della fede che lo Spirito Santo accese attraverso la predicazione di quegli evangelizzatori» restarono «al sicuro grazie alla sollecitudine dei fedeli laici». La Chiesa in Giappone ci ricorda dunque con la sua storia, travagliata e abbondante di benedizioni, che i cristiani sono missionari per natura. «Discepoli e missionari di Gesù Cristo», per riprendere il titolo del Documento di Aparecida, a cui il cardinale Bergoglio lavorò con tanto impegno e passione. È questa Chiesa missionaria, che evangelizza per attrazione, quella che Francesco va predicando e testimoniando dall’inizio del Pontificato e che nel «suo» Giappone trova un terreno fecondo per il piccolo seme della Buona Novella.

di Alessandro Gisotti