Sostantivo versus aggettivo: a lezione di comunicazione da Papa Francesco

SS. Francesco - Sala Regia: Dicastero per la Comunicazione 23-09-2019
24 settembre 2019

Nell’arco di una mattinata Papa Francesco ha impartito due lezioni di alto giornalismo. Altissimo, si potrebbe dire “giornalismo divino” o, almeno, giornalismo teologico. Giornalismo cristiano, per dirlo con esattezza.

Ieri mattina, lunedì 23 settembre, parlando alle nove del mattino a tutto il personale del Dicastero per la comunicazione, oltre cinquecento persone (tra cui l’intero personale de «L’Osservatore Romano»), il Papa ha esortato tutti gli operatori della comunicazione a «passare dalla cultura dell’aggettivo alla teologia del sostantivo». Muoversi quindi da una “cultura” per entrare nella dimensione della “teologia”. Questo invito va letto all’interno di un orizzonte che più in generale contraddistingue l’intero pontificato di Bergoglio: superare la riduzione che vede il cattolicesimo come una cultura a fianco a tante altre culture e riportarlo nel suo contesto più naturale, quello teologico. Il fatto stesso della comunicazione rivela questa visione che ricomprende il mistero di Dio, una visione che ogni cristiano dovrebbe possedere; il Papa lo ha spiegato bene all’inizio del suo discorso: l’atteggiamento del comunicare «esprime il desiderio di Dio: comunicare Sé stesso, in quello che i teologi chiamano la pericoresi: si comunica dentro di Sé, e si comunica a noi. Questo è l’inizio della comunicazione: non è un lavoro di ufficio, come la pubblicità, per esempio. Comunicare è proprio prendere dall’Essere di Dio e avere lo stesso atteggiamento; non poter rimanere da soli».

Se si tratta dell’Essere di Dio è naturale che la comunicazione debba essere essenziale, da qui l’indicazione del Papa a comunicare mettendo al centro il sostantivo anziché l’aggettivo. Ci può essere una “cultura” dell’aggettivo, anzi anche più culture, ma solo una teologia del sostantivo che Francesco ha spiegato con queste parole: «Siamo caduti nella cultura degli aggettivi e degli avverbi, e abbiamo dimenticato la forza dei sostantivi. Il comunicatore deve far capire il peso della realtà dei sostantivi che riflettono la realtà delle persone. E questa è una missione del comunicare: comunicare con la realtà, senza edulcorare con gli aggettivi o con gli avverbi».

È un tema questo del contrasto sostantivo/aggettivo, che di recente il Papa ha ripreso più volte, spesso declinandolo in una lettura etica e sociale e anche ieri nelle sue parole si è sentito un accento simile quando ha fatto l’esempio sub contraria specie: «“Come, tu conosci quella persona?” — “Ah, quella persona è così, così...”: subito l’aggettivo. Prima l’aggettivo, forse, poi, dopo, come è la persona. Questa cultura dell’aggettivo è entrata nella Chiesa e noi, tutti fratelli, dimentichiamo di essere fratelli per dire che questo è “così” fratello, quello è “nell’altro modo” fratello: prima l’aggettivo». In altri discorsi il Papa aveva aggiunto che questa primazia dell’aggettivo portava alla logica dello scarto: il qualificare la persona porta inevitabilmente alla selezione e all’esclusione. Di fronte alla vita, ci ricorda il Papa, non deve prevalere il criterio della qualità ma della dignità, passare appunto dalla cultura alla teologia, vedere il mondo e gli uomini con gli occhi di Dio, non essere pronti a sparare un aggettivo qualificativo in base a degli “standard”, ma essere capaci di accogliere la vita così com’è, nella sua bellezza ontologica, essenziale. E così allora sarà anche la comunicazione del cristiano: «La vostra comunicazione sia austera ma bella: la bellezza non è dell’arte rococò, la bellezza non ha bisogno di queste cose rococò; la bellezza si manifesta dallo stesso sostantivo, senza fragole sulla torta!».

Il richiamo all’evitare le “fragole” è ritornato nel discorso di qualche ora dopo rivolto ai giornalisti cattolici (Ucsi) quando ha ricordato un’espressione di Manuel Lozano Garrido, più conosciuto come Lolo, il primo giornalista laico che il 12 giugno 2010 la Chiesa ha proclamato beato che «Nel suo “decalogo del giornalista” raccomanda di “pagare con la moneta della franchezza”, di “lavorare il pane dell’informazione pulita con il sale dello stile e il lievito dell’eternità” e di non servire “né pasticceria né piatti piccanti, piuttosto il buon boccone della vita pulita e speranzosa”».

Una comunicazione quindi austera e quindi bella, sobria, fatta di poche parole, capaci però di restituire “il peso della realtà”. Sempre parlando ai giornalisti cattolici il Papa ha ricordato il celebre ammonimento di Gesù: «Questo significa anche essere liberi di fronte all’audience: parlare con lo stile evangelico: “sì, sì”, “no, no”, perché il di più viene dal maligno (cfr. Mt 5, 37). La comunicazione ha bisogno di parole vere in mezzo a tante parole vuote».

Il Vangelo come manuale del giornalista, dovremmo ricordarcelo, non solo noi che lavoriamo nella comunicazione, ma noi tutti cattolici che comunque e sempre nella vita non facciamo altro che comunicare. Il primo versetto del Vangelo di Giovanni lo afferma in modo lapidario: «In principio era il verbo». Il verbo, la parola. Il che vuol dire che la parola è preziosa, un bene da maneggiare con cura, senza sprechi né eccessi. Il segreto della comunicazione allora è nel togliere più che nel mettere. Viene in mente quello che insegnava Michelangelo con la sua teoria dell’ablatio: la statua già dimora dentro il cubo di marmo, bisogna allora soltanto togliere tutto il marmo superfluo e la statua prenderà forma e vita e splenderà della sua bellezza. Nella comunicazione veramente umana non c’è bisogno di artifizi rococò né di fragole. La parola basta, una parola capace di splendere nel silenzio, che ha bisogno del silenzio, suo grembo, per nascere, vivere e splendere, una parola che sia buona, giusta, vera.

A lezione di giornalismo da Papa Francesco, s’imparano tante cose, innanzitutto la grande responsabilità di un lavoro, quello del comunicatore, che non è un fatto meramente intellettuale o culturale, ma ha a che fare con l’Essere di Dio.

Andrea Monda