Nel nome la missione

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12 settembre 2019

Dodici settembre, il nome di Maria. Viene spontaneo pensare che in questi ultimi tempi il nome di Maria è stato usato in contesti e modi a dir poco impropri e scorretti ma vale la pena, in questa sede, soffermarsi su altro, lasciando il pensiero andare altrove, più in alto o comunque in luoghi più appropriati. Nei discorsi che Papa Francesco ha pronunciato in questi giorni nel suo viaggio in Africa, ad esempio, il tema del nome è apparso ripetutamente. In particolare nel discorso ai giovani (quasi un milione) raccolti nella veglia del 7 settembre nella spianata di Soamandrakizay in Madagascar, il Papa ha parlato dell’importanza di «rinunciare agli aggettivi e a chiamare le persone col loro nome, come fa il Signore con noi. Lui non ci chiama col nostro peccato, con i nostri errori, i nostri sbagli, i nostri limiti, ma lo fa con il nostro nome; ognuno di noi è prezioso ai suoi occhi. Il diavolo, invece, pur conoscendo i nostri nomi, preferisce chiamarci e richiamarci continuamente coi nostri peccati e i nostri errori; e in questo modo ci fa sentire che, qualunque cosa facciamo, nulla può cambiare, tutto rimarrà uguale. Il Signore non agisce così. Il Signore ci ricorda sempre quanto siamo preziosi ai suoi occhi, e ci affida una missione».

Il nome è collegato con una missione, il nome è una missione. Gli antichi avevano intuito già qualcosa quando sentenziavano nomen omen. Nel nome è racchiusa l’identità intesa come storia e destino di una persona, quel destino e quelle storie che come ha detto il Papa nello stesso discorso ai giovani «si nascondono dietro ogni volto».

Il giorno dopo, parlando ai sacerdoti, ai consacrati e ai seminaristi è tornato sul tema della missione collegandolo al nome, ma questa volta al nome di Gesù. E qui il discorso assume un carattere paradossale perché se da una parte il nome è importante, importantissimo in quanto rivela la realtà ultima di un individuo, dall’altra per il cristiano il nome proprio deve come mettersi da parte e lasciare spazio al nome di Dio, del Dio che si è incarnato ed è entrato così a fondo nelle nostre vite che San Paolo non può che esclamare parlando ai cristiani di Filippi che «per me vivere è Cristo!».

Lo ha spiegato bene il Papa esortando i sacerdoti a fare come i 72 che per primi nel Vangelo vengono inviati a evangelizzare: «I settantadue erano consapevoli che il successo della missione era dipeso dall’averla compiuta “nel nome del Signore Gesù”. Questo li stupiva. Non era stato per le loro virtù, per i loro nomi o titoli; non portavano volantini di propaganda con i loro volti; non erano la loro fama o il loro progetto ad affascinare e salvare le persone. La gioia dei discepoli nasceva dalla certezza di fare le cose nel nome del Signore, di vivere il suo progetto, di condividere la sua vita; e questa li aveva fatti innamorare al punto da spingerli anche a condividerla con gli altri.

«Ed è interessante notare che Gesù riassume l’operato dei suoi discepoli parlando della vittoria sul potere di Satana, un potere che non potremo mai vincere con le nostre sole forze, ma certo lo potremo nel nome di Gesù. […] Nel suo nome, voi vincete dando da mangiare a un bambino, salvando una madre dalla disperazione di essere sola a fare tutto, o procurando un lavoro a un padre di famiglia».

Il nome è la prima cosa che conosciamo di una persona, ed è la prima anche per importanza, dovremmo “maneggiarlo” con cura, custodirlo e usarlo senza strumentalizzarlo ma rivolgendoci agli altri guardandoli in quel volto che nasconde sempre una storia da conoscere e rispettare. Proprio come fa il Papa che riesce sempre, anche negli incontri davanti a milioni di persone, a parlare a un “tu”, a creare le condizioni perché possa nascere un dialogo tra due volti, due nomi, due storie.

Tutto questo sapendo che per i cristiani il proprio nome deve muoversi verso il nome che ha vinto il mondo, deve confluire nel nome di Cristo per diventare il nome dell’uomo nuovo che vince la sua battaglia personale con il proprio egoismo e si apre all’avventura di un amore che si apre con un sì, come ha fatto Maria, all’irruzione di Dio nella vita umana che diventa vita anche divina.

Andrea Monda