Da cuore a cuore la lettera del Papa ai presbiteri

Non miele ma sale della terra

SS. Francesco - Udienza Generale 26-06-2019
06 agosto 2019

Eterna è la sua misericordia! Il grido di esultanza del Salmo 135 è il leit motiv che accompagna il testo che il Papa ha voluto inviare a tutti i sacerdoti in occasione della festività del loro santo, il Curato d’Ars, nel 160° anniversario della morte. In questa lunga lettera, firmata e spedita dalla cattedrale di San Giovanni in Laterano, il Vescovo di Roma si rivolge a tutti i presbiteri del mondo ma, secondo il suo stile, si pone davanti con ciascuno di essi, parlando a un “tu” a cuore aperto, cor ad cor loquitur secondo il motto del beato, presto santo, cardinale Newman. Francesco parla dal cuore al cuore, e vuole far arrivare a ogni prete cattolico sparso nel mondo il suo abbraccio, la sua stima, la sua vicinanza, il suo incoraggiamento. La lettera è rivolta «a voi che, come il Curato d’Ars, lavorate in “trincea”, portate sulle vostre spalle il peso del giorno e del caldo (cfr. Mt 20, 12) e, esposti a innumerevoli situazioni, “ci mettete la faccia” quotidianamente e senza darvi troppa importanza, affinché il Popolo di Dio sia curato e accompagnato».

Ci vuole coraggio per “metterci la faccia” e questo coraggio deve essere “rifornito”, rinvigorito, è questo il senso che immediatamente risulta dalla lettura di questo importante testo dell’attuale successore di Pietro. Incoraggiamento e ringraziamento: «Come fratello maggiore e padre anch’io voglio essere vicino, prima di tutto per ringraziarvi a nome del santo Popolo fedele di Dio per tutto ciò che riceve da voi». Fratello maggiore e padre: tra i tanti documenti del pontificato di Bergoglio, questo è uno di quelli in cui maggiormente trasuda la paternità del Santo Padre.

Un testo intenso dunque, e ricco di sfumature al punto che è difficile commentarlo, in poco tempo, in modo esaustivo (non è peraltro un testo da commentare, ma serve come accompagnamento per tutti i cattolici, non solo i presbiteri, nella fatica della quotidianità).

Colpiscono a una prima lettura tre aspetti, espressi da tre parole: dolore, tentazione, popolo.

Il dolore è posto al centro della riflessione di Francesco; viene in mente Dostoevskij, scrittore particolarmente amato dal Papa, che pone al centro delle sue opere il dolore con la sua scandalosità ma anche santità. Il dolore fa parte in modo intrinseco dell’essere sacerdote: «La missione a cui siamo stati chiamati non implica di essere immuni dalla sofferenza, dal dolore e persino dall’incomprensione», e il Papa ha parole di grande conforto per il particolare momento storico che sta attraversando la Chiesa, ma è proprio l’essere prete che, sempre, espone a una immersione nelle ferite e quindi nel dolore della umanità. Anzi, dice il Papa, il rapporto con il dolore si rivela un prezioso “test” per «sapere come si trova il nostro cuore di pastore è chiedersi come stiamo affrontando il dolore».

E qui subentra il secondo aspetto, quello della tentazione, che innanzitutto è voler prendere le distanze dal dolore e quindi dall’addolorato. È una tentazione che si colora di intellettualismo, quando invece la vocazione e missione sacerdotale devono essere affrontate «non come teoria o conoscenza intellettuale o morale di ciò che dovrebbe essere, bensì come uomini che immersi nel dolore sono stati trasformati e trasfigurati dal Signore, e come Giobbe arrivano ad esclamare: “Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto” (42, 5). Senza questa esperienza fondante, tutti i nostri sforzi ci porteranno sulla via della frustrazione e del disincanto».

E qui subentra un’altra sfumatura della stessa tentazione, che è l’accidia. Il Papa si rifà nuovamente alla letteratura, richiamando esplicitamente il Diario di un curato di campagna di Bernanos, e alla grande tradizione spirituale, citando il cardinale Tomáš Špidlík, e definisce efficacemente l’accidia come tristezza dolciastra che «semina scoraggiamento, orfanezza e porta alla disperazione», quella tristezza che «paralizza il coraggio di proseguire nel lavoro, nella preghiera, ci rende antipatici i nostri vicini [...] porta all’assuefazione e conduce gradualmente alla naturalizzazione del male e dell’ingiustizia con il debole sussurro di quel “si è sempre fatto così”». Nello stesso romanzo il grande scrittore francese, proprio contro quella tristezza dolciastra, fa dire a un sacerdote «il buon Dio non ha scritto che noi fossimo il miele della terra, ragazzo mio, ma il sale». Qui si scopre il buon “servizio” che può rendere la letteratura: portare quella scossa di cui ha bisogno l’uomo intorpidito dalla “prosaicità” della vita. Il Papa lo riassume efficacemente, proprio mentre spiega il rischio dell’accidia, con parole semplici: «Sfidiamo l’abitudinarietà, apriamo bene gli occhi e gli orecchi». Ma i buoni libri, poetici o spirituali, che possono senz’altro aprire gli occhi e gli orecchi, da soli non bastano, anzi possono offrire il fianco a un’altra tentazione, quella che il Papa chiama “tendenza prometeica”; ci vuole quindi altro, la preghiera: «È nella preghiera che sperimentiamo la nostra benedetta precarietà che ci ricorda il nostro essere dei discepoli bisognosi dell’aiuto del Signore, e ci libera dalla tendenza prometeica “di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme”».

Qui emerge il terzo aspetto: il popolo. Perché la preghiera non è mai un fatto soltanto individuale. Soprattutto per un pastore la sua preghiera si fonde con quella del e per il popolo. Anche qui si deve ripartire dal dolore perché «il dolore di tante vittime, il dolore del Popolo di Dio, così come il nostro, non può andare perduto»; il pastore, immerso nell’esperienza fondante del dolore, scoprirà che nella sua missione non è mai da solo, ha due compagni e alleati sempre a fianco: il popolo e Gesù. «In una tale preghiera sappiamo che non siamo mai da soli» afferma il Papa, «La preghiera del pastore è una preghiera abitata sia dallo Spirito “il quale grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6), sia dal popolo che gli è stato affidato. La nostra missione e identità ricevono luce da questo doppio legame. La preghiera del pastore si nutre e si incarna nel cuore del Popolo di Dio. Porta i segni delle ferite e delle gioie della sua gente». Questa alleanza permette al cuore del pastore di non scoraggiarsi: «Per mantenere il cuore coraggioso è necessario non trascurare questi due legami costitutivi della nostra identità: il primo, con Gesù. […] L’altro legame costitutivo: aumentate e nutrite il vincolo con il vostro popolo. Non isolatevi dalla vostra gente e dai presbiteri o dalle comunità. Ancora meno non rinchiudetevi in gruppi chiusi ed elitari. Questo, alla fine, soffoca e avvelena lo spirito. Un ministro coraggioso è un ministro sempre in uscita».

Dolore, tentazione, popolo. Ma su tutto si stende il manto della misericordia. Il Papa non dice il termine originale in ebraico, rachamìn, ma esprime chiaramente il concetto quando ringrazia i sacerdoti «per tutte le volte in cui, lasciandovi commuovere nelle viscere, avete accolto quanti erano caduti, curato le loro ferite, offrendo calore ai loro cuori, mostrando tenerezza e compassione come il Samaritano della parabola (cfr. Lc 10, 25-37). Niente è così urgente come queste cose: prossimità, vicinanza, essere vicini alla carne del fratello sofferente». Quando i sacerdoti si sono lasciati commuovere nelle viscere sono stati fedeli e il Papa lo vuole sottolineare: «Grazie per la vostra fedeltà agli impegni assunti. È veramente significativo che, in una società e in una cultura che ha trasformato “il gassoso” in valore ci siano delle persone che scommettano e cerchino di assumere impegni che esigono tutta la vita».

Ecco il sale, e non il miele, della terra, il segno di contraddizione, ecco l’antidoto alla tristezza dolciastra, la solidità della fede operosa rispetto alla “gassosità” del mondo. Tutto bene, a patto di non scivolare nel rischio opposto della tendenza prometeica (le due eresie, gnosi e pelagianesimo, sempre attuali), da questo ci salva la consapevolezza che la fedeltà non è la nostra ma è quella di Dio, è sua la misericordia eterna. Non è un errore di stampa quel ripetere, decine di volte, all’interno della lettera, l’esclamazione del salmo 135: «Eterna è la sua misericordia!», noi possiamo essere misericordiosi, ogni tanto, ma Dio è la misericordia e noi possiamo esserlo solo nella misura in cui lo facciamo agire dentro di noi. E se non dovesse bastare, il Papa su questo punto è quanto mai netto: «Sostanzialmente stiamo dicendo che continuiamo a credere in Dio che non ha mai rotto la sua alleanza, anche quando noi l’abbiamo infranta innumerevoli volte. Questo ci invita a celebrare la fedeltà di Dio che non smette di fidarsi, credere e scommettere nonostante i nostri limiti e peccati, e ci invita a fare lo stesso». Come aveva già scritto nella Gaudete et exsultate: «La mancanza di un riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti è ciò che impedisce alla grazia di agire». Al termine della lettura di questo testo che il successore di Pietro ha inviato a tutti i suoi fratelli sacerdoti, viene in mente un’altra commovente pagina letteraria sul mysterium ecclesiae, scritta dal romanziere inglese G. K. Chesterton: «Quando, in un momento simbolico, stava ponendo le basi della Sua grande società, Cristo non scelse come pietra angolare il geniale Paolo o il mistico Giovanni, ma un imbroglione, uno snob, un codardo: in una parola, un uomo. E su quella pietra Egli ha edificato la Sua Chiesa, e le porte dell’Inferno non hanno prevalso su di essa. Tutti gli imperi e tutti i regni sono crollati, per questa intrinseca e costante debolezza, che furono fondati da uomini forti su uomini forti. Ma quest’unica cosa, la storica Chiesa cristiana, fu fondata su un uomo debole, e per questo motivo è indistruttibile. Poiché nessuna catena è più forte del suo anello più debole».

di Andrea Monda