Sulla responsabilità degli organi di stampa

Un volto tra la folla

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23 luglio 2019

Questa mia riflessione nasce da due episodi, uno di questi giorni, l’altro di sette mesi fa. Il primo è l’incontro casuale con un vecchio amico, ex-manager di alto livello che per un’indagine della magistratura, diffusa su tutte le testate nazionali, fu costretto a perdere il lavoro con tutte le conseguenze che questo comporta. L’indagine poi non portò a nulla ma questa seconda notizia non fu data con lo stesso risalto della prima relativa all’avvio delle sue indagini. L’altro episodio è che appunto proprio sette mesi fa, il 21 dicembre 2018, cominciava la mia avventura di direttore di questo prestigioso quotidiano. Facile unire i due episodi e comprendere su cosa verte la mia riflessione: la responsabilità, l’enorme responsabilità che grava sulle spalle dei giornalisti e più in generale degli operatori nel campo delle comunicazioni.

Non è un tema sul quale si discute molto, forse perché il cosiddetto “dibattito pubblico” è spesso impostato proprio dai giornalisti che insistono, giustamente, sulle responsabilità delle altre categorie della società, in particolare dei politici, ma non amano mettere sotto i riflettori le proprie.

Per diciotto anni ho insegnato a scuola e anche lì ho spesso sentito i miei colleghi professori parlare, a volte con veemenza, della libertà del docente come del principio cardine della scuola, un diritto da difendere a ogni costo contro ogni possibile “attentato”. Sentivo parlare invece molto raramente (per meglio dire: mai) i miei colleghi dell’altro principio che, secondo me, insieme alla libertà, regge tutto l’edificio dell’educazione: il principio della responsabilità. Gli educatori come i comunicatori svolgono un ruolo pubblico che comporta una grande responsabilità, non solo perché hanno a che fare con l’edificazione della casa comune, con la società del futuro, ma anche perché vanno a incidere direttamente sulla vita concreta, sulla carne e il sangue di persone umane. Un titolo di un giornale può fare molto male, può uccidere. Anche l’assenza di un titolo può produrre lo stesso effetto, si pensi all’assenza (o alla risibile presenza) delle cosiddette “smentite”: a fronte di notizie urlate con titolo a quattro colonne in prima pagina, il luogo dove si “sbatte il mostro”, corrispondono spesso notizie di smentita sussurrate negli angoli più oscuri del giornale.

Su questo punto ho sempre trovato illuminante la riflessione che fece Benedetto XVI nella sua meditazione davanti alla statua della Madonna l’8 dicembre 2009 a piazza di Spagna: «Nella città vivono — o sopravvivono — persone invisibili, che ogni tanto balzano in prima pagina o sui teleschermi, e vengono sfruttate fino all’ultimo, finché la notizia e l’immagine attirano l’attenzione. È un meccanismo perverso, al quale purtroppo si stenta a resistere. La città prima nasconde e poi espone al pubblico. Senza pietà, o con una falsa pietà. C’è invece in ogni uomo il desiderio di essere accolto come persona e considerato una realtà sacra, perché ogni storia umana è una storia sacra, e richiede il più grande rispetto. [...] I mass media tendono a farci sentire sempre “spettatori”, come se il male riguardasse solamente gli altri, e certe cose a noi non potessero mai accadere. Invece siamo tutti “attori” e, nel male come nel bene, il nostro comportamento ha un influsso sugli altri. [...] La città è fatta di volti, ma purtroppo le dinamiche collettive possono farci smarrire la percezione della loro profondità. Vediamo tutto in superficie. Le persone diventano dei corpi, e questi corpi perdono l’anima, diventano cose, oggetti senza volto, scambiabili e consumabili. Maria Immacolata ci aiuta a riscoprire e difendere la profondità delle persone, perché in lei vi è perfetta trasparenza dell’anima nel corpo [...] La Madonna ci insegna ad aprirci all’azione di Dio, per guardare gli altri come li guarda Lui: a partire dal cuore. E a guardarli con misericordia, con amore, con tenerezza infinita, specialmente quelli più soli, disprezzati, sfruttati. [...] Voglio rendere omaggio pubblicamente a tutti coloro che in silenzio, non a parole ma con i fatti, si sforzano di praticare questa legge evangelica dell’amore, che manda avanti il mondo. Sono tanti, anche qui a Roma, e raramente fanno notizia. Uomini e donne di ogni età, che hanno capito che non serve condannare, lamentarsi, recriminare, ma vale di più rispondere al male con il bene. Questo cambia le cose; o meglio, cambia le persone e, di conseguenza, migliora la società».

La città è fatta di volti, questo è il punto. Gesù quando camminava nelle città del suo tempo, portando la sua buona notizia, andava sempre incontro alle persone cercando di incrociare il loro volto (pensiamo all’episodio della emorroissa), tra le masse provava a creare un rapporto autentico, umano, personale; a volte i mass media realizzano il risultato opposto: tirano fuori un volto tra la folla ma per sfruttarlo «fino all’ultimo, finché la notizia e l’immagine attirano l’attenzione», per darlo in pasto alla massa.

Questa è la riflessione che da sette mesi vado elaborando ora che mi trovo a dirigere un giornale, cioè a offrire all’attenzione dei lettori il mio sguardo sul mondo sapendo del “potere” che mi trovo a esercitare dal mio ruolo di direzione e mi chiedo: qual è il mio sguardo? È di chi cerca notizie o cerca volti che non siano solo corpi da sfruttare? Con quale stile interpreto e svolgo il mio lavoro, rivendicando solo i miei diritti e difendendo a denti stretti la mia libertà? Oppure cerco di avere lo sguardo di chi, sentendo il peso della responsabilità, e conoscendo la fragilità umana, guarda il mondo e gli altri con occhi di verità e di misericordia? Il mio sguardo è quello di Maria che guarda come guarda suo Figlio, cioè a partire dal cuore oppure si ferma in superficie e invece di servire gli altri finisce per servirsene?

Mi piacerebbe che questa domanda, che è molto laica, perché tocca il nervo cruciale della costruzione democratica delle nostre società, fosse accolta dai miei colleghi perché tutti insieme potessimo parlare concretamente, per una volta, non solo del sacrosanto diritto della libertà della comunicazione, ma anche dell’altra faccia della stessa medaglia.

Andrea Monda