Lettere dal direttore

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26 luglio 2019

Due giorni fa, all’età di 75 anni, è morto l’attore olandese Rutger Hauer che, come tutti sanno, “ha visto cose che noi umani...” vestendo i panni di Roy Batty, il replicante amaro e albino che nel finale di Blade Runner si lascia morire sotto la pioggia battente di una Los Angeles del futuro. In realtà la megalopoli californiana è stata immaginata da Philip Dick proprio nell’anno 2019, colpisce quindi doppiamente la scomparsa del bravo attore che ha dato volto a uno dei personaggi più struggenti e inquietanti del cinema di fantascienza. Era il 1982 e il film di Ridley Scott è rapidamente diventato un cult-movie che ancora tutto il mondo ricorda. Sei anni dopo Hauer interpretava un altro ruolo, questa volta da protagonista, molto diverso, anche se pure questo struggente e inquietante, in un film decisamente agli antipodi rispetto a Blade Runner, ma che merita senz’altro uno spazio importante nella nostra memoria, e non solo per i molti riconoscimenti ricevuti: sto parlando de La leggenda del santo bevitore di Ermanno Olmi, tratto dal romanzo di Joseph Roth.

Anche qui la ricorrenza è tonda: il romanzo è del 1939, anno dello scoppio della seconda guerra mondiale, anno della morte dello stesso autore austriaco che in quelle pagine ha riassunto la sua meditazione su di sé e su un mondo che si stava consumando tra sbandamenti e dissipazioni a conferma del fatto che spesso la letteratura ha a che fare con la fine del mondo, o comunque di un mondo, di una vita. Una fine però aperta in questo caso alla speranza: proprio quando tutto è perduto è lì che può accadere qualcosa, può farsi viva la grazia, anche se in forma misteriosa. Di Andreas Kartack, l’ex minatore senzatetto che vive sotto i ponti di Parigi, proprio come del replicante Roy Batty, conosciamo e vediamo solo le sue ultime ore di vita, ma qui non c’è rabbia, violenza, dolore e ribellione ma una dolce apertura agli incontri che la vita offre ogni giorno, c’è un’accoglienza radicale, elementare della vita così come si presenta, in mezzo ai mille naufragi che quotidianamente sperimentiamo noi lettori insieme a Roy, ad Andreas, a Joseph. «Ora è tempo di morire» recita Hauer-Roy sotto la pioggia; «tutto è grazia» è invece la parola della piccola Teresa di Lisieux, stella che brilla dall’inizio alla fine del romanzo-film, ed è questa la parola conclusiva della paradossale parabola di Andreas bevitore e santo.

A.M.