Testimonianze
In clausura?
Recentemente, dopo avermi fatto tante domande sulla nostra vita in monastero, una ragazza ha esclamato: «Io non la chiamerei clausura ma comunità!». Con la sua luminosa intuizione, Anna, 22 anni, ha saputo fare sintesi di ciò che, quel giorno, stando insieme a noi, ha toccato quasi con mano. «Hai fatto centro! - ho esclamato - la nostra vita è proprio questo: comunità!».
Quando, a mia volta, venticinque anni fa mi ero affacciata sulla soglia della vita contemplativa, timidamente e per caso - avendo ricevuto nella mia posta elettronica l’indirizzo del sito internet del monastero senza averlo cercato – , anche io l’avevo ribattezzata con un nome nuovo. La clausura l’avevo percepita, infatti, come una vera “apertura”: gli sguardi, i gesti, la mentalità delle monache li vedevo spaziare ovunque. Oltrepassavano i confini del monastero e abbracciavano il mondo in una maniera inaspettata e creativa. Così reale e così viva! Ne restai profondamente colpita. Affascinata. Altro che gente disadattata o antiquata! Davanti a me stavano delle vere donne. Al mio sguardo curioso, guardingo e interrogativo, questo non era poco. Avrei potuto trovare delle donne ascetiche, delle persone spirituali, certo, ma troppo “eteree”, troppo lontane dal mio mondo, troppo diverse. Scoprivo, invece, con gioiosa sorpresa, che queste donne, in passato, avevano vissuto situazioni simili alle mie. Avevano “assaggiato” la vita ordinaria della gente comune e l’avevano trovata entusiasmante, meravigliosa, attraente. Ma avevano scelto, ad un certo punto, semplicemente e senza clamori, di lasciare strade desiderabili per una via che percepivano ancora più allettante. Si erano lasciate trovare dall’infinito, e l’avevano abbracciato. Non si erano accontentate di quanto avevano già trovato: la loro pienezza era altrove. Là bisognava andare. Questa scelta, lo vedevo bene, aveva fatto fiorire le loro persone.
Queste donne così stranamente reali, così vive, erano andate controcorrente. Erano persone normali! Non avrei fatto fatica nel pensarle come spose e madri. Erano capaci di commuoversi, di giocare, di ridere e di piangere. Conoscevano il mondo meglio di me. Ma avevano una marcia in più. Che percepivo bene respirando, in quei cinque giorni del dicembre 1998 in cui venni in monastero per un ritiro per giovani e durante i quali condivisi la loro vita, uno spazio interiore immenso e aperto. Ecco: la clausura, questo termine così obsoleto, stava diventando ora, per me, libertà. Luogo vitale di intimità con Dio e di accoglienza reciproca fra le persone. Spazio in cui ascoltare la Parola per lasciarsi guidare dalla sua luce nei passi quotidiani dell’esistenza. Pista in cui lasciar correre i miei sogni per farli decollare dietro all’immensa creatività di Dio.
E così, all’età di ventisette anni, mi sono buttata dentro l’avventura con un “certo” Signore che, dalla Croce, mi aveva comunicato il suo silente ma tangibile e smisurato amore per ogni creatura. La sua infinita tenerezza. Il suo sguardo mi aveva catturata: non potevo più dimenticarlo. Ero stata sedotta dalla sua mitezza. E volevo vivere come queste donne ritenute folli dal mondo, eppure così avanti, così moderne, così vive ai miei occhi.
Era il 2001 quando oltrepassai la porta del monastero domenicano di S. Maria della Neve, a Pratovecchio (Arezzo). Portavo tutti dentro, con il desiderio di entrare insieme a tutti nel cuore di Dio. La vita contemplativa, infatti, in un primo momento sembra separare dagli affetti, ma in realtà unisce più profondamente. E indissolubilmente. A Dio e a tutti i figli a lui cari. A ogni donna e ogni uomo sulla terra. A partire dalle persone care. E poi a ogni albero, a ogni fiore, al cielo azzurro, ai fiumi; al vento, ai rami, alle foglie, alle farfalle, alle stelle. A tutta la creazione.
Esisteva ancora, in quel periodo, la ben nota grata di ferro che, nel parlatorio monastico, separava gli ospiti dalle sorelle. Il monastero, d’altra parte, è immagine viva di quella “cella del cuore” di cui santa Caterina da Siena parla così spesso nei suoi scritti: un luogo di raccoglimento con il Signore che ogni persona dovrebbe custodire. La monaca ha bisogno di uno spazio interiore di libertà e di intimità con Dio. Come ogni autentica sposa. Ma la vera clausura, dice Caterina, è «il costato di Cristo» (cfr. Lett. 75). È questo lo spazio amplissimo in cui la contemplativa si rifugia. Lì dentro attinge quell’amore sconfinato che non la chiude agli altri, ma la rende canale autentico di vita e di grazia per tutti. Strumento della tenerezza di Dio. Attraverso la preghiera, innanzitutto.
In questo senso, le monache di Pratovecchio stavano già vivendo un “farsi vicino” alle storie di ognuno. Dio è amante della vita. Come può non esserlo chi sceglie di rispondere alla sua chiamata a divenire intercessione vivente per il mondo? La contemplativa domenicana, nel cuore dell’Ordine e della Chiesa, intercede per tutti. Sostiene con la sua preghiera l’evangelizzazione.
Ma non siamo entrate in monastero semplicemente per dire delle preghiere. Piuttosto, «il motivo principale per il quale siete riunite insieme è che viviate unanimi nella casa e formiate un cuor solo ed un'anima sola protesa verso Dio» (Regola di S. Agostino I,3).
La comunione di vita è, per noi, una vera e propria forma di obiezione di coscienza contro le guerre e le divisioni che feriscono la storia: cerchiamo di vivere fra noi ciò che sogniamo per il mondo. E i nostri piccoli gesti di accoglienza reciproca e di amore diventano preghiera vivente, intercessione continua, attiva partecipazione alla faticosa conquista della pace tra i popoli. Tutte le decisioni importanti le prendiamo insieme nel capitolo, che è l’assemblea delle monache professe solenni della comunità. È questo il luogo vitale in cui facciamo un’autentica esperienza dello Spirito Santo. Qui ogni sorella si esprime nella libertà, perché in ognuna Dio pone un raggio della sua luce. Solo insieme, e con il contributo di ciascuna, possiamo conoscere il Suo disegno su di noi. In questo sforzo di ascolto reciproco, lo Spirito ci visita e ci sorprende, aprendoci a nuove prospettive e a scelte spesso impensate. È la via di Dio, che va oltre ogni sorella ma in cui ciascuna, infine, si ritrova. Perché «e 'n la sua volontade è nostra pace». (Paradiso iii , 85).
Questa spiritualità sinodale che san Domenico di Guzmán, fondatore dell’Ordine dei predicatori, ci ha trasmesso già nel xiii secolo, è di un’attualità sorprendente. È una sfida non sempre facile che, spesso, richiede tempi lunghi. Ma è un’esperienza di Dio. Della sua Presenza tra noi.
Donne di età, provenienza, indole e culture diverse, un giorno abbiamo iniziato a sognare insieme uno spazio più adatto a vivere la vita monastica nel nostro tempo. Abbiamo lasciato un antico monastero del 1568, nel centro del paese, per costruire un edificio che potesse aprirsi al nuovo, alla vita, alla gente, coniugando insieme semplicità, praticità e bellezza. Una struttura senza barriere architettoniche dove ogni sorella, di qualunque età e in qualsiasi condizione fisica, potesse essere in grado di seguire la comunità in tutti i momenti e i luoghi della vita quotidiana. Un luogo immerso nella natura, il cui chiostro non fosse chiuso ma abbracciasse l’orizzonte, perché la vita monastica ci rende sorelle di tutti. Un monastero senza grate, per mettere al centro la comunione, l’accoglienza e l’essere Chiesa. Ed è così che il Signore ci ha rese “casa” dove i popoli si incontrano. E, nella sfida quotidiana della diversità, imparano a rispettarsi e a vivere insieme. Ad accogliersi e ad amarsi.
di Mirella Soro
Monaca Domenicana
#sistersproject