«Big Fish» di Tim Burton compie vent’anni

Generare è narrare

 Generare  è narrare  QUO-294
23 dicembre 2023

«A furia di raccontare storie, un uomo diventa una di quelle storie e diventa immortale». È la battuta finale del film che ne riassume il senso profondo. Si tratta della stessa affermazione che una volta fece il premio Nobel Elie Wiesel: la gente diventa le storie che sente e le storie che racconta. Narrare è generare così come viceversa generare è narrare, secondo il bel titolo del saggio sulla Bibbia di Jean Pierre Sonnet.

Il tema del racconto e della narrazione, insieme al tema della paternità sono i pilastri di questo film uscito 20 anni fa dal genio poetico di Tim Burton, un regista diventato di culto per una vasta fetta di amanti del cinema. All’interno di questo culto, Big Fish è un film dal singolare destino: non tutti i seguaci di Burton lo amano e invece piace tantissimo a una piccola fetta di pubblico, composta anche da persone non particolarmente appassionati del regista americano. Il tema del racconto dunque, che parte da una riflessione sul fatto che l’uomo è “animale narrante”, lo stesso spunto che ha portato a simili conclusioni Papa Francesco nel messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali del 2020 incentrato sulla dimensione vitale della narrazione.

Una storia di storie


L’uomo dunque è un essere che ama ascoltare e raccontare storie, che trova nelle storie la sua identità più profonda e autentica. E con esso la paternità, tema strettamente collegato al racconto: il primo e più importante uditorio che un uomo che narra possa avere è quello rappresentato dalla sua famiglia, dei suoi figli. Proprio così inizia il film, tratto dall’omonimo romanzo di Daniel Wallace, che racconta la vita di Edward Bloom, dalla nascita alla morte, partendo da quest’ultima. Subito dopo una breve introduzione, infatti, lo spettatore incontra Edward a letto, in punto di morte. Nel suo letto di agonia viene raggiunto dal figlio Will, accompagnato dalla moglie francese Josephine in dolce attesa.

I due, padre e figlio, non si parlano da alcuni anni e il motivo di questo litigio è la invadenza del padre che non perde nessuna occasione, nemmeno quella del matrimonio del figlio (è proprio questo episodio che segna la fine momentanea del rapporto), per parlare, parlare, parlare e, il che è peggio, parlare sempre e solo di sé. Edward infatti racconta sempre la stessa storia, la storia della sua vita. Egli si racconta, passa la sua vita a fare questo e sembra non fare altro, in modo da creare una vita “al quadrato”: accanto alla vita reale c’è quella raccontata, la seconda diventa presto eco, cassa di risonanza e lente distorcente della prima. Particolare “aggravante”, soprattutto agli occhi del figlio: i singoli episodi di questa storia raccontata sono spesso ricamati, farciti cioè di dettagli sorprendenti ed epici, effetti mirabolanti e colpi di scena, diventando così ben presto scarsamente credibili. Will, da bambino, come tutti i bambini, amava ascoltare le meravigliose avventure del padre alle quali credeva senza alcuno sforzo; poi, crescendo, ha cominciato a sottoporle a un vaglio critico e quindi a rifiutarle, il che è equivalso a rifiutare il padre, vista l’identificazione tra la persona e l’azione del narrare. Il rapporto si spezza e Will, all’inizio del film, può dire alla moglie: «non mi riconoscevo in mio padre e credo che lui non si riconoscesse in me. Eravamo due estranei che si conoscono molto bene».

Tornato al capezzale del padre morente Will ritrova il “solito vecchio” Edward, almeno apparentemente: un egocentrico che continua a raccontare le sue vicende biografiche. Il film si muove come un intricato sistema di scatole cinesi che si svolge con la leggerezza a cui ci ha abituato il regista americano: i coloratissimi racconti e le scene della vita reale si intrecciano e rimandano continuamente gli uni alle altre con ironia e romanticismo, fino a provocare un coinvolgimento emotivo dello spettatore che, se si abbandona al flusso del film senza voler troppo capire, non può, al suo finire, non commuoversi.

Il fatto che Will abbia ritrovato il padre come lo aveva lasciato, con la sua tenace costanza nel raccontare di sé, porta, all’inizio, a un irrigidimento tra i due ma poi, grazie anche al buon rapporto che si instaura tra Edward e la nuora, il figlio cerca in qualche modo la strada di un riavvicinamento. La realtà è che Will sente di non aver mai conosciuto davvero Edward e vorrebbe cogliere quell’ultima occasione per “entrare nel mistero” del padre. «Non ho idea di chi tu sia» gli dice sinceramente addolorato, «non mi hai mai raccontato un solo fatto». «Ma te ne ho raccontati a centinaia, non facevo altro che raccontare» risponde Edward. «Io ti credevo — riprende il figlio — poi mi sono sentito un idiota». Nel riconoscere il proprio smacco Will definisce il padre come un iceberg di cui si conosce solo il 10 per cento che emerge in superficie. È interessante a questo punto la risposta, quasi irata, del padre con cui apparentemente si interrompe il tentativo di riavvicinamento: «Sono sempre stato me stesso — dice il padre — se tu non riesci a vederlo, la colpa è tua». Come a dire: mi hai sempre avuto davanti agli occhi e ancora mi chiedi di mostrarmi a te?

Viene alla mente il dialogo simile tra l’apostolo Filippo e Gesù nel capitolo 14 del vangelo di Giovanni: «Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre?”» (Giovanni 14,8-9). Come gli apostoli, anche Will vuole “vedere il Padre” senza comprendere che, da sempre, ce l’aveva sotto gli occhi.

A questo punto Will rimane turbato. Nella scena successiva lo vediamo ripulire la piscina della casa paterna quando all’improvviso scorge tra le foglie che coprono l’acqua stagnante la sagoma di un enorme pesce gatto. È una illuminazione: quel grande pesce, big fish, dalle dimensione improbabili è il protagonista di tante storie narrate dal padre. A Will viene il dubbio: e se fossero tutte vere quelle storie? Si mette allora sulle tracce della verità del padre; la seconda parte del film è la descrizione di questa affannosa ricerca da parte del figlio dell’identità del padre. Will comincia a scartabellare tra le vecchie carte e i caotici sgabuzzini di Edward, intervista tutte le persone (a partire dalla madre) che possono testimoniare, in un modo o in un altro, la veridicità dei racconti paterni. Scoprirà infine che c’era molta più verità di quanto all’inizio apparisse e, soprattutto, scoprirà la cosa più importante: cosa vuol dire essere padre, cosa vuol dire essere figlio.

La moglie, Josephine, sta per avere un figlio e proprio per questo Will vuole sentirsi dire dal padre la verità della sua storia, senza più menzogne. Capirà invece che non è importante la veridicità dei dettagli di quelle storie quanto invece la profondità del rapporto tra narratore e ascoltatore. Una sera a Will capita di origliare un dialogo tra la moglie e il padre: Edward chiede a Josephine se conosce un certo fatto (ovviamente della sua vita) e Josephine risponde positivamente. Eppure Edward glielo racconta di nuovo perché «Will chissà come te lo avrà raccontato». Josephine rimane affascinata dal modo poetico, coinvolgente e romantico che Edward ha di raccontare quelle storie.

Alla fine del film Will avrà capito la lezione. Si troveranno insieme, da soli, padre e figlio, e a Edward sono rimasti pochi minuti. Quanto basta perché Will racconti al padre quello che sta per accadere, “creando” con il racconto, la “vera” fine della vita di Edward. E questo avviene appunto attraverso un racconto, fatto in pure stile “edwardiano”, che commuoverà entrambi. Lo spettatore non assiste al semplice decesso di un uomo su un letto di ospedale (anche perché questa cronaca del decesso non viene mostrata, ma sostituita dalla morte “leggendaria” di Edward), ma è coinvolto nella storia che, insieme, padre e figlio, raccontano: un finale pieno di gioia e umanità. Ora che Will è diventato come il padre, un perfetto narratore di belle storie, Edward può morire felice.

Una storia vera


Big
Fish ci ricorda che sin dalla notte dei tempi l’uomo ha amato raccontare e ascoltare storie. È un gesto che lo rende simile a Dio. Un gesto che equivale in qualche modo ad un riappropriarsi della propria identità, che consente di dare un senso alla propria esistenza.

Questo film inoltre ci dona una storia che può aiutare a riflettere in maniera efficace sul rapporto tra padre e figlio e sul rapporto tra Dio e l’uomo. Dio è il creatore dell’uomo, è suo padre, che però non lascia da soli i propri figli. A essi si rivela e segno di questa rivelazione è già la stessa (infinita) creazione oltre a quella meravigliosa storia che è raccontata nelle Sacre Scritture. Nella Bibbia è contenuta la storia della salvezza, la storia intesa come relazione, e relazione d’amore tra Dio e l’umanità. Questo meraviglioso libro di libri (tà Biblìa) può essere paragonato ad una autobiografia di Dio, un testo in cui, in qualche modo, Dio racconta se stesso; tale rivelazione avviene mediante l’uso di strumenti umani, il linguaggio con tutte le sue forme, immagini, simboli… che Dio usa con grande maestria, dimostrandosi narratore affascinante, capace di tessere storie attraverso tutti i generi letterari e poetici al fine di farsi comprendere dall’uomo lasciandolo però nella sua libertà. È lo stile usato anche dal Figlio, mandato dal Padre per farcelo conoscere e che, in obbedienza a Lui, non giudicherà l’uomo, né schiaccerà la sua libertà ma gli offrirà la sua proposta di vita e felicità. La Bibbia infatti, ed in particolare il Vangelo, non contiene una dottrina esposta nei suoi precetti ma piuttosto il racconto di una storia. Il Vangelo infatti è innanzitutto la storia di una vicenda biografica di un uomo che, anziché esporre teorie filosofiche o dottrine morali, ha a sua volta raccontato altre storie, sotto forma di parabole che, inoltre, prendono spunto dalla vita quotidiana, forse dalla vita propria di Gesù o da quella dei suoi amici (quando parla per esempio del seminatore, della zizzania o dei vignaioli), e in questi racconti non è importante la veridicità storica dei dettagli, quanto il processo di illuminazione e di conversione che essi mettono in moto nell’ascoltatore trafitto dal messaggio profondo, celato dietro la fabula e portato all’attenzione del suo cuore dall’autorità e dal carisma del narratore. Il “celare” il suo messaggio nelle parabole, è un meccanismo che preserva intatta la libertà del suo ascoltatore, che permette la scelta verso il rifiuto e la chiusura o l’adesione piena e convinta della fede. «Chi ha orecchi, intenda!». «Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire…». L’atto di fede è l’atto umano più libero che esista, che richiede lo sforzo massimo della ragione e della volontà. Come dice Pascal: «In tutte le verità della fede c’è tanto di luce per rendere l’atto di fede razionale, e vi è tanto di oscurità per renderlo meritorio alla libera volontà aiutata dalla grazia».

Come le parabole di Gesù, così anche le storie che racconta Edward in Big Fish sono, in qualche modo, oscure e si possono vedere, come ricorda San Paolo, solo in aenigmate, come in uno specchio oscuro ( 1 Corinzi 13,12). Da qui la crisi del figlio Will che, se da bambino (con quella semplicità che permette una fede schietta e libera), non frapponeva difficoltà, una volta cresciuto entra in crisi e rompe il rapporto col padre, forse per un malinteso senso di verità e di razionalità.

Will non riesce più a “vedere il padre”, e per questo, come sopra è stato già ricordato, chiede che egli si mostri. È una domanda di fede che rivela la cecità di Will. In questo senso Big Fish, parlando del rapporto padre-figlio, realizza una grande metafora del rapporto tra Dio e l’uomo: l’uomo spezza la sua innocenza originaria, il suo rapporto confidente con Dio e si allontana da lui, proprio come il figliol prodigo della parabola (Luca 15). La fuga da Dio lo porterà lontano, nella solitudine e nello smarrimento, fino a quando, mosso da una nostalgia divina, sarà di nuovo capace di ritornare e di comprendere, con nuovi occhi, la verità di quel rapporto spezzato. Con la sua conversione e il ritorno al Padre, si realizza il disegno di Dio: la divinizzazione dell’uomo. È ciò che avviene nel finale del film: il figlio Will diventa il padre, nel senso che anche lui incomincia a raccontare una storia, e non è importante se sia più o meno veridica, essa è vera in quanto permette la riconciliazione tra padre e figlio e permette al padre di vivere, da protagonista, la sua morte e così di diventare immortale.

di Andrea Monda