Sulla porta di casa Con Isabella, educatrice della Fondazione Somaschi, accanto alle donne vittime della tratta

«Posso avvicinarmi a te?»

 «Posso  avvicinarmi  a te?»  ODS-007
04 febbraio 2023

Avere un’idea, anche lontana, di cosa sia la vita di donne rese schiave ai bordi delle strade non è facile. E ancor di più difficile è pensare se per loro — che subiscono la violenza e il ricatto della tratta — la parola “amore” abbia un senso. Potrei, forse, immaginarlo, ma l’incontro con Isabella Escalante, un’educatrice della Fondazione Somaschi, mi ha ricordato che spesso l’immaginazione protegge dalla realtà, che sa essere cruda e imprevedibile.

Da vent’anni Isabella si occupa, all’interno della onlus, di emersione e accoglienza nelle provincie di Milano, Lodi e Lecco.

In che cosa consiste la vostra attività?

Si articola in tre fasi principali: emersione, accoglienza e integrazione delle vittime di tratta e di sfruttamento sessuale. Si comincia contattando le persone nei luoghi di sfruttamento per offrire poi, se lo vogliono, una possibilità di uscita.

Da dove provengono le donne vittime di tratta?

Per la prostituzione in strada, le donne provengono soprattutto dalla Romania, dall’Albania e dalla Nigeria. Ad oggi però, quasi il 50% è transessuale e proviene dal Perù o dal Brasile. Invece, per la prostituzione in indoor le vittime sono cinesi e sud-americane.

Da dove nasce il tuo impegno?

Avevo 19 anni e insieme al mio compagno, ormai marito, e ad un gruppo di amici avevamo iniziato ad occuparci delle donne di strada. Dopo gli studi universitari, ho deciso che quello sarebbe stato il mio lavoro. Per noi consiste nell’essere in strada, il pomeriggio o la sera, sotto il sole e la pioggia, ed essere lì per loro: semplicemente questo. È bello condividere con loro un “pezzo di strada”, accompagnarle fin dove è possibile e fin dove ce lo permettono.

Cosa fate?

Mostriamo che non siamo lì per imporre qualcosa, ma siamo lì
per ascoltarle.

Questo è qualcosa di rivoluzionario, perché percepiscono che possono essere considerate in un modo diverso: come persone.

Isabella, come si inizia a parlare con loro?

Lo chiamiamo intervento di bassa soglia. Non ci avviciniamo mai per imporci. Tutte le sere con l’auto andiamo da loro e chiediamo se hanno voglia di parlare, se possiamo star loro accanto e distribuire dei volantini informativi. Chiedere semplicemente: “posso avvicinarmi a te?” è qualcosa per loro fuori dall’ordinario, perché nessuno chiede mai loro cosa vogliono, o se hanno bisogno di qualcosa. È sempre il cliente a chiedere cosa vuole.

Che succede dopo?

La strada noi la chiamiamo il “non luogo”. Perciò, dopo che abbiamo chiesto se possiamo avvicinarci e se possiamo offrire dei servizi — come l’assistenza medica o legale — preferiamo incontrarle per prendere un caffè insieme o per parlare nel nostro ufficio, uscendo appunto dal “non luogo”. L’obiettivo è farle sentire finalmente uno sguardo amico e non giudicante.

Sono consapevoli della loro condizione di schiavitù?

Alcune vittime di tratta sono consapevoli, ma non tutte perché la difficoltà ad uscire da quella condizione è dovuta principalmente o al legame sentimentale con lo sfruttatore, oppure perché hanno paura: gli sfruttatori minacciano di fare del male alle loro famiglie o ai figli che hanno lasciato nel loro paese

Cosa ti spinge ad andare avanti, sapendo che le catene della tratta sono così difficili da spezzare?

Non abbiamo scelto di essere educatori per il risultato che otteniamo. Spesso non ci rendiamo conto di quanto sia per loro davvero complicato riappropriarsi della propria vita. Molte portano cicatrici indelebili. Hanno bisogno di molto supporto psichico, di interventi clinici, ma non sempre è sufficiente.

È difficile liberarsi, ma non impossibile. Alcune sono riuscite a denunciare i loro sfruttatori, e l’hanno fatto perché potesse essere d’esempio. Altre, grazie a quello che hanno ricevuto, hanno deciso di collaborare con noi e sono diventate a loro volta mediatrici culturali.

Per alcune di loro, poi, la parola “amore” ha ripreso ad avere un senso. Mi hanno invitata ai loro matrimoni, al battesimo dei figli.

Sono grandi lezioni di coraggio.

di Giuditta Bonsangue