Hic sunt leones
Contrastare lo scollamento fra storia millenaria dell’Africa e immaginario occidentale

Oltre il pregiudizio
della «white ignorance»

 Oltre il pregiudizio della «white ignorance»  QUO-022
27 gennaio 2023

Se oggi il grande Cicerone fosse uno di noi, sicuramente esclamerebbe: «O tempora, o mores», «Che tempi, che costumi». In effetti, riflettendo su quanto avviene sul palcoscenico della storia contemporanea, è sempre più evidente che ci troviamo nel bel mezzo di una crisi di civiltà, sintomatica di un deficit culturale, pressoché trasversale a tutte le latitudini. Questa deriva trova peraltro un infelice riscontro anche in riferimento all’indirizzo che stiamo imprimendo alle nostre relazioni con gli altri popoli. Infatti, il trend prevalente è incentrato sui confini, sulle paure e sullo spirito di ostilità nei confronti dell’alterità. La crisi migratoria riflette questo disagio e rimanda alla palese contraddizione che l’Europa vive al suo interno: tra universalismo e nazionalismo.

A questo proposito è illuminante e provocatoria la riflessione del compianto Carlo M. Cipolla (Pavia, 15 agosto 1922 — Pavia, 5 settembre 2000) nel suo saggio The Basic Laws of Human Stupidity. Egli già alla fine degli anni Settanta aveva messo in evidenza la nostra sottovalutazione, da una parte, del numero di individui stupidi in giro per il mondo e, dall’altra, della loro pericolosità, e di come, inoltre, la probabilità d’essere stupidi risulti indipendente da qualsiasi altra caratteristica umana. Egli vedeva gli stupidi come un gruppo di gran lunga più potente delle maggiori organizzazioni come le mafie o le lobby industriali, non organizzato e senza ordinamento, vertici o statuto, ma che tuttavia riesce ad operare, facendo sistema, con incredibile coordinazione ed efficacia. Le osservazioni di Cipolla vennero ulteriormente sviluppate da Giancarlo Livraghi (Milano, 25 novembre 1927 — Milano, 22 febbraio 2014) ne Il potere della stupidità. Con molta schiettezza egli ammise che «non possiamo sconfiggerla del tutto, perché fa parte della natura umana. Ma i suoi effetti possono essere meno gravi se sappiamo che c’è, capiamo come funziona, e così non siamo presi del tutto di sorpresa». Da qui l’urgenza di studiare la «Stupidologia». Si tratta del tentativo «di spiegare perché le cose non funzionano e quanto ciò è dovuto alla stupidità umana, che è la causa di quasi tutti i nostri, grandi o piccoli, problemi. E anche quando la causa non è la stupidità, le conseguenze peggiorano perché sono stupide le nostre reazioni e i nostri tentativi di soluzione». Il concetto fondamentale è che, se riusciamo a renderci conto di come funziona la stupidità, possiamo controllarne un po’ meglio le conseguenze. «La stupidità — scriveva sempre Livraghi — è la più grande forza distruttiva nella storia del genere umano. Non è eliminabile, ma non è invincibile. Capirla e conoscerla è il modo migliore per ridurne gli effetti». Per questo motivo, la vera sfida, guardando al futuro, per credenti e non credenti, è quella di contrastare il pensiero debole contemporaneo.

Le diseguaglianze tra ricchi e poveri e più in generale la cosiddetta esclusione sociale esigono un impegno fattivo da parte delle agenzie educative per inaugurare una nuova stagione, quella della consapevolezza. Proprio come scrive Papa Francesco nell’Esortazione Apostolica post-sinodale Amoris Laetitia. Si tratta di «formare le coscienze», non «di pretendere di sostituirle»(AL 37). Occorre davvero tornare ad essere menti pensanti, operando un sano discernimento sulla verità dei fatti. Il verbo discernere, è da ricondursi al latino «dis-cèrnere» (dis = due volte + cèrnere = separare), quindi letteralmente «separare due volte, separare con attenzione»; in senso più ampio, «giudicare, stimare, soppesare, valutare». Pertanto il discernimento è la capacità di valutare qualcosa o qualcuno. Importantissima virtù della saggezza, è di fatto poco praticata, soprattutto nelle scelte orientate al bene condiviso. Essa rappresenta la capacità di ridurre e scindere il complesso in parti minute, valutandolo in maniera completa, con grande cognizione. Così servirà discernimento per riconoscere le tensioni e giudicare l’operato di qualcuno nelle situazioni più svariate. Si tratta di un processo di decodificazione, fondamentale per rendere intelligibile la realtà personale e collettiva in un mondo che cambia.

Detto questo, occorre soffermarsi necessariamente sulle implicazioni della stupidità nei rapporti nord-sud, soprattutto per quanto concerne il pregiudizio nei confronti delle popolazioni afro. Alla prova dei fatti, la condizione mentale di cui stiamo parlando può essere benissimo considerata come «ignoranza» proprio come l’ha ben descritta nella sua riflessione l’afro-caraibico Charles Wade Mills (3 gennaio 1951 — 20 settembre 2021). Nato a Londra, Mills crebbe in Giamaica per poi diventare cittadino degli Stati Uniti. Secondo Mills, esistono diversi tipi di ignoranza basata sui gruppi, come l’ignoranza maschile e l’ignoranza bianca («white ignorance»), che nel mondo accademico prevalentemente bianco è stata poco esplorata. L’espressione definisce l’idea di ignoranza, un «non sapere», nel quale la razza «svolge un ruolo causale cruciale», cioè è un’ignoranza prevalente tra i bianchi nei fatti in cui la razza è direttamente o indirettamente responsabile. Importante osservare che in questo caso, nel suo ragionamento, la razza non è interpretata da una visione fisico-biologica, ma a un livello socio-strutturale. «La verità è che siamo di fronte disfunzioni cognitive localizzate e globali» egli scrisse ed ecco che allora l’ignoranza è diventa il risultato di una conoscenza instillata che è comune a un gruppo, con l’idea di un modello cognitivo che garantisce la distorsione della realtà.

Di esempi, a questo proposito, ne potremmo portare a iosa. Basti pensare a quel rappresentante del nostro mondo imprenditoriale che venne redarguito tempo fa da un politico africano nel corso di incontro economico-politico a Roma dei ministri economici dei governi africani. «L’Africa non è un Paese» fu la risposta alquanto irritata in quella circostanza del ministro nigeriano allo scivolone in cui era incorso il nostro connazionale. Benché il relatore fosse in buona fede, tale lapsus (ancora oggi molto ricorrente tra la gente) rende l’idea del ritardo culturale, anche in termini di policy imprenditoriale, con cui si considera (innocentemente, certo!) l’Africa, dimenticando, peraltro, che si tratta di un continente tre volte l’Europa.

E cosa dire di quello che spesso si sente dire sui cosiddetti «bambini africani» che soffrono la fame, obliando che ufficialmente gli Stati del continente africano sono 54. Un numero sicuramente elevato a cui bisognerebbe aggiungerne due il cui status non è ancora del tutto certo: stiamo parlando del Sahara Occidentale e del Somaliland. D’altronde, un conto è parlare dei minori in Sud Africa, un altro in Uganda o in Somalia. La generalizzazioni sono fuorvianti. Per non parlare del pregiudizio instillato nelle masse dai colonizzatori per cui l’Africa sarebbe una sconfinata terra sine historia. Sin dai tempi delle prime esplorazioni, le leggende di popoli selvaggi e primitivi, addirittura privi di anima, sono state predominanti nella narrazione portata avanti da avventurieri, navigatori e soldati di ventura.

E questi pregiudizi aprono la strada a una necessaria riflessione sul presente. Molte di queste rappresentazioni si sono infatti cristallizzate nel nostro immaginario collettivo, complice anche la quasi totale assenza di copertura mediatica — se non quella legata ad emergenze naturali o umanitarie (l’Africa ancora e sempre “bisognosa”?) — su un intero continente che si continua a ridurre ad un tutt’uno indistinto. Esigenza tanto più pressante ora che l’incontro con l’altro avviene quotidianamente nel perimetro del mondo villaggio globale. Questa ignoranza che porta a misconoscere che questo continente è quello in cui l’homo sapiens mosse i suoi primi passi per poi migrare, circa 125 mila anni fa, in tutto il pianeta; motivo per cui viene considerato dagli studiosi la «culla dell’umanità». Poliedrico contenitore di saperi millenari, luoghi di passioni, ricchezza culturale e artistica, galassia di etnie fatte di volti con le loro storie da scoprire, l’Africa merita sempre e comunque rispetto.

Sta di fatto che il pregiudizio razziale — a volte velato, altre totalmente ignorato — rimane iscritto nella cultura occidentale. Come ha rilevato Mills: «Questa esperienza razziale differenziale genera una percezione morale e politica alternativa della realtà sociale, che può essere riassunta in questo modo: quando i bianchi dicono “Giustizia”, intendono molto spesso “Solo noi”». Motivo per cui, mai come oggi, facendo tesoro della «fratellanza universale» predicata da Papa Francesco, occorre contrastare lo scollamento fra dati storici, culturali, etnografici, religiosi che riguardano l’Africa e l’immaginario occidentale. Una sfida che non può essere disattesa.

di Giulio Albanese