Zico racconta perché Pelé «è stato un’altra cosa»

Sogni di bambini

 Sogni di bambini  QUO-297
30 dicembre 2022

«Il nome di Pelé è ormai legato per sempre al mio: il Brasile voleva il suo erede. Scelsero me. Mi chiamarono il Pelé bianco». A detta di tutti, Zico è secondo solo a Pelé nel cuore calcistico dei brasiliani. Un cuore, sempre secondo il sentire popolare, a forma di pallone. Di cuoio o stracci. Ma certo non di plastica.

Arthur Antunes Coimbra — in arte, sì in arte, Zico — il Pelé bianco, dunque. «Ma ero diverso da lui» mette subito in chiaro. È da quando ha tirato il primo calcio a un pallone che Zico viene interpellato su Pelé: «Resta unico, eterno “re del calcio”, non non ci sarà mai un altro come lui. A me non piaceva quando tutti volevano che fossi il suo erede: oltretutto in campo gli avversari mi picchiavano proprio perché venivo presentato come il “nuovo Pelé”. Ma ho sempre detto: io non sono Pelé!».

Cosa rappresenta Pelé per il popolo brasiliano, per il calcio? Zico «spara» dritto, come fosse una delle sue magiche punizioni: «Quando Dio ha creato i calciatori ha messo tutto in Pelé: velocità, forza, tecnica, dribbling, colpo di testa, tiro, fantasia. Nessun calciatore è paragonabile a Pelé. Aveva tutte le qualità e le caratteristiche che un giocatore dovrebbe avere. Tanti campioni hanno quasi tutto. Ma non tutto».

«Da piccolo ero uno suo tifoso e, personalmente, gli sono grato perché per me ha sempre avuto belle parole» ricorda. Entrambi, poi, sono stati ministri dello Sport. Nonostante la differenza di età — Pelé è nato nel 1940, Zico nel 1953 — «abbiamo anche giocato insieme due volte, sempre in partite di beneficenza». In particolare, «ricordo bene quel 6 aprile 1979 al Maracanã. Lui aveva 39 anni e aveva smesso di giocare già da un po’. Ma accettò subito l’invito del Flamengo, la mia squadra, a partecipare a una partita con l’Atletico Mineiro per raccogliere aiuti per le persone vittime delle alluvioni che avevano creato una grave situazione a Minas Gerais: morti, epidemie, gente che aveva perso tutto e non aveva da mangiare. In segno di rispetto, gli lasciai la mia amatissima maglia numero 10 e indossai la numero 9. Vincemmo 5-1. Pelé, in campo per 45’, era un uomo generoso, non si tirava indietro se c’era da aiutare».

L’altra partita venne giocata il 21 luglio 1983, nello stadio Serra Dourada a Goiânia, sempre per raccogliere fondi per le popolazioni colpite da inondazioni. E Pelé segnò il suo ultimo gol.

Guardando Pelé e anche i campioni di quella straordinaria generazione — è il pensiero di Zico — «ho imparato a vivere con il piacere di avere il pallone tra i piedi. A cercare la gioia nel gioco del calcio e quindi nella vita. Ho imparato a non vedere il calcio come una professione per diventare ricchi: è l’errore di molti genitori di giovani aspiranti calciatori».

Cosa è cambiato? «Pelé ha imparato a giocare a calcio per strada, come me» fa presente Zico. «Oggi, invece, manca proprio il pallone per strada». Manca, persino nei ragazzini, «la gioia di giocare». Proprio «guardando Pelé — rilancia — ho imparato che il calcio è anche un sogno. Da bambino avevo un sogno: giocare con la maglia numero 10 del Flamengo. L’ho realizzato. Dio è stato molto generoso con me. Ma Pelé è stato un’altra cosa».

di Giampaolo Mattei