· Città del Vaticano ·

Quando il mercato pretende di trovare in sé il suo senso mette fatalmente in pericolo la sua stessa sopravvivenza

È sempre una questione
di fiducia

 È sempre una questione di fiducia  QUO-226
03 ottobre 2022

Anticipiamo qui un brano del nuovo libro dell’economista francese Gaël Giraud, La rivoluzione dolce della transizione ecologica. Come costruire un futuro possibile (Libreria Editrice Vaticana, pp. 236, euro 16, in libreria da martedì). Gesuita, matematico e teologo, fondatore e direttore del Centro per la giustizia ambientale della “Georgetown University” di Washington, dove insegna “Economia ed ecologia”, direttore di ricerche del Cnrs e docente di teologia politica al Centre Sèvre di Parigi, membro della Pontifica Accademia per la vita, Giraud sarà nei prossimi giorni in Italia per illustrare i contenuti del suo nuovo lavoro. Queste le date e i luoghi: 11 ottobre a Lecco (Sala Ticozzi, ore 21), 12 ottobre a Brescia (Sala Bevilacqua, ore 18) e Verona (Issr San Pietro martire, ore 20.45); 13 ottobre a Vimercate (Libreria Il Gabbiano, ore 17.30).

La teoria economica dominante descrive il mondo come un sistema basato sull’interesse e incentrato su un mercato in cui ogni relazione è scambio. La Chiesa ha sempre rifiutato questa logica, come formulato chiaramente da Leone xiii nella Rerum novarum e confermato da Giovanni Paolo ii , Benedetto xvi e Francesco. Questo perché il cristianesimo difende la forza del dono, un elemento essenziale della vita in generale e della vita economica in particolare.Spesso è dal dono che nasce la fiducia e, senza fiducia, non c’è economia possibile. Nell’idea di giustizia distributiva esiste una logica di equivalenza, di simmetria: il “giusto” prezzo è quello che rende equivalenti due prodotti che vengono scambiati; una distribuzione “equa” è quella che, rispetto a un certo criterio, considera equivalenti le ripartizioni attribuite a ognuno. Anche in Rawls la teoria della giustizia mantiene l’idea di una regola di equivalenza compensatoria: il principio di differenza permette, infatti, di rendere accettabili alcune disuguaglianze, a condizione che risultino favorevoli ai più svantaggiati. Aggiungendo una teoria della «mano invisibile» si conferma l’opinione secondo cui la crescita delle disuguaglianze, favorendo i più “produttivi”, permetterà in definitiva di migliorare la sorte dei meno ricchi e, di conseguenza, verrà legittimata in nome della giustizia.

In tale ottica, quale spazio rimane alla carità? Non può che essere un aspetto marginale, praticabile tutt’al più per compensare alcune insufficienze dei mercati. Sappiamo infatti che, quando questi sono incompleti, non portano a un’allocazione di second best. In questo tipo di argomentazione, nella misura in cui l’intervento dello Stato si trova spesso discreditato, le “opere di carità” permettono di colmare la domenica pomeriggio le lacune dell’inevitabile incompletezza dei mercati: alla generosità personale di alcuni è affidato il ruolo consolatorio di rendere meno dura una logica che funziona benissimo per il resto della settimana.

In queste condizioni, come stupirsi allora che un filosofo come Comte-Sponville arrivi ad affermare che quanto egli identifica come ordine «tecnico, economico e scientifico del capitalismo» esige di essere liberato da qualsiasi considerazione “morale”? Inversamente, come non si stupirebbero certi economisti, leggendo la Dottrina sociale della Chiesa, nel constatare che quest’ultima non si è ancora convertita al mercato? Bernard Laurent ne conclude con logica stringente che la “resistenza” opposta dal magistero ecclesiale all’apologia del mercato può solo provenire dai resti di un integralismo cattolico che si ostina ad abitare la tradizione romana: così come il Sillabo (1864) tradiva la profonda difficoltà della Chiesa ad aprirsi alla modernità della Rivoluzione francese, allo stesso modo la serie di encicliche inaugurata dalla Rerum novarum (1891) sarebbe da mettere in relazione con il suo rifiuto di aprirsi alla rivoluzione industriale…

La mia intenzione è tentare di sostenere il punto di vista opposto: la vocazione della caritas — l’altro nome dell’amore — non è quella di servire da complemento a un’istanza autoregolatrice che potrebbe sostanzialmente farne a meno (perché, in questo caso, complicarsi la vita con inutili “buoni sentimenti”?); al contrario, la caritas in quanto “logica della sovrabbondanza” potrebbe rappresentare il pilastro che fonda e rende possibile l’istituzione mercantile.

Oltre a tradire una sorprendente mancanza di comprensione di quel grandissimo mistico cristiano che fu Pascal, di cui Comte-Sponville rivendica una parte di eredità, la sua posizione tanto meno può ritenersi autorizzata da una tradizione cristiana secondo cui, senza la caritas, «non sarei nulla» (1 Cor 13,2). In san Tommaso d’Aquino — il primo, probabilmente, a pensare all’autonomia del campo economico rispetto alla teologia — la determinazione di un prezzo non è separata dal suo fine, che è l’accordo tra due persone in vista di uno scambio, cioè l’esistenza del legame sociale. E nulla che riguardi quest’ultimo, ricorda Tommaso, può essere escluso dall’ambito dell’etica. Per quanto riguarda l’idea del “sacrificio necessario” — sacrificare i meno “produttivi” alla fine porterà beneficio a tutti, costoro compresi —, essa non risulta comunque accettabile per uomini e donne la cui fede trae nutrimento dal racconto della morte di un Messia innocente, ucciso perché «… è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera» (Gv 11,50). Riguardo ai più svantaggiati, che una certa logica dell’equivalenza affiderebbe alla bontà di qualche anima caritatevole, i cristiani hanno imparato a fare l’esperienza di riconoscere sui loro volti i tratti del Messia crocifisso (cfr. Mt 25,35 ss.). Se aggiungiamo che un lucido sguardo teorico dovrebbe ammettere che i mercati, anche completi, non garantiscono un’allocazione efficace delle risorse rare, si direbbe che l’ordine di priorità tra la logica commerciale e quella della caritas debba essere ribaltato. Ciò significa che l’esperienza della fede cristiana risulta incompatibile con la pratica delle istituzioni commerciali? Assolutamente no, e ovviamente il pastore anglicano Stephen Green, chairman di “Hsbc Holdings”, ha ragione di affermare che un cristiano può benissimo lavorare su una piazza di scambio!

Ma allora, quali sono i rapporti tra caritas e mercato? Non occorre ratificare tutta la storia politica di Alain Peyrefitte per accettare ciò che poteva avere di giusto la sua diagnosi: nessuna istituzione politica, sociale ed economica è viabile senza uno spazio di fiducia che la preceda. Basta un minimo di pratica dei mercati per convincersene […] Dove attinge, una società, le risorse con cui alimentare il tessuto di relazioni di fiducia indispensabili per il funzionamento delle sue istituzioni (tanto commerciali come politiche, essendo la crisi di fiducia nel mercato analoga alla perdita di credito nella democrazia)? La fiducia, in effetti, come ognuno di noi sperimenta quotidianamente, talvolta è così difficile da creare, così fragile, così delicata, da richiedere una manutenzione continua. A quale fonte può alimentarsi? Chiaramente, porre questa domanda significa ipso facto suggerire che la condizione che rende possibili le istituzioni mercantili non si trova nella sfera mercantile, ma al di fuori. La fiducia stessa su cui si basa qualsiasi forma di contratto sfugge alla logica del contratto.

Il mercato rinvia a qualcosa di altro da sé. È in tale contesto che possiamo comprendere il vigore delle critiche del magistero romano al liberalismo. Non accade forse che ogni volta che il mercato pretende di creare da sé le condizioni della fiducia che gli permette di vivere, ogni volta che si pone come origine di se stesso, compromette con le sue proprie mani le sue possibilità di sopravvivenza?

di Gaël Giraud