Tra le bombe nel Donbas

Sguardi spenti sulle macerie

Pet shop owner Julia, 32, looks at the debris of her shop after it has been hit by Russian forces, ...
06 agosto 2022

Mentre le bombe e i missili continuano a cadere su Mykolaiv e Kharkiv, nell’est e nel sud dell’Ucraina, i combattimenti più intensi vanno concentrandosi in questi ultimi giorni nel Donbas, e in modo particolare attorno a Bakhmut e Siversk. E proprio quest’ultima è diventata il fronte più avanzato dello scontro, ormai accerchiata da tutte le parti dall’esercito invasore.

Stavo viaggiando, domenica scorsa, tra Bakhmut e Siversk, con due cappellani militari, e lo abbiamo scoperto di persona. Portavamo, in due van, cibo acqua e medicinali alle circa duecento persone rimaste completamente isolate e prive di tutto. Senza elettricità, nè acqua, né gas, quasi senza più animali, e costretti a vivere nelle cantine o al piano terra di palazzi sventrati e completamente anneriti. A Bakhmut prendiamo la strada che a destra sale verso Siversk, l’altra è stata chiusa dai soldati perché lì si combatte. Saliamo lungo un filare di colline coperte di grano sotto un cielo turchese: i colori della bandiera ucraina. Il fronte russo è a soli 5 chilometri più a est, ma salendo le colline, d’un tratto il cappellano militare, che viene qui ogni settimana, si accorge di una nuvola bianca sul terreno a un paio di chilometri, sotto di noi, verso ovest: il segno di un combattimento in corso. Gli sfugge un "mamma mia, siamo circondati" e accelera all’impazzata, cercando di evitare i grossi proiettili di artiglieria conficcati nell’asfalto, e non ancora esplosi.

A Siversk i russi avevano bombardato tutto quello che si poteva bombardare: palazzi, scuole, pompe di benzina, un piccolo cimitero e anche l’antico monastero basiliano, il più grande del Donbas. E anche il grande campo di grano che si stendeva ai piedi della città. Fiammate rapidissime ingoiavano ad ondate il tappeto di spighe, che crepitando lanciavano un grido disperato. Stormi di rondini, stordite dalle colonne di fumo e investite dalle ondate di calore, perdevano il volo, e vorticando su se stesse, con un gemito si abbattevano nella cenere. Anche la natura, sconvolta, malediceva la guerra.

In città si avventuravano solo qualche bicicletta e rari passanti, che rendevano il paesaggio ancora più lunare. All’ombra dei palazzi diroccati, gruppi di due, tre famiglie cucinavano assieme qualcosa, a non più di un metro dalle cantine, accovacciati su un fuoco di assi e di sterpi, con le pentole smaltate del servizio buono, scampate alla distruzione. Stavano vicino ma non parlavano, solo qualche timido sorriso, un sussurro, ma spenti pure questi. Quando il cibo era cotto, la famiglia lo portava in cantina, e si liberava il posto per un’altra. Così, come fantasmi. La scena agghiacciante di un "day after". Quando ricevevano il pacco, rispondevano appena con un sorriso, anch’esso spento. Si scuotevano appena quando una bomba a grappolo cadeva più vicino. Ma era una reazione meccanica, l’inferno li aveva come scissi da se stessi. Qualcosa dentro di loro si era rotto, il corpo rimaneva lì, ma loro non c’erano.

Intanto, da occidente il fronte russo avanzava e l’artiglieria aveva ripreso a sparare a non più di un chilometro da Siversk; ma gli invasori sparavano contemporaneamente anche da est, a nemmeno 5 chilometri. Gli ucraini rispondevano con altrettanto volume di fuoco, i carri armati e l’artiglieria nascosti nei boschi attorno alla città. E in mezzo noi, i due van e quella povera gente. Anche un giovane carrista nel suo imponente carro armato appoggiato al muro di un palazzo e perfettamente mimetizzato sotto gli alberi.

Ci siamo dovuti gettare in terra e strisciare fino all’angolo del palazzo di fronte, mentre i proiettili si incrociavano sulle nostre teste. Poi, in un momento di pausa, di corsa sui van e, lasciati due pacchi ancora, via all’impazzata verso Bakhmut. Che, nel frattempo era stata pesantemente bombardata, e dove il corpo di una donna giaceva coperto di lato ad un’aiola, mentre due feriti gravi erano stati portati via dai soldati.

Ci fermiamo davanti all’ultima cantina, per consegnare dei pacchi ad una donna magra, stretta in un vestito nero, il volto terreo. Poteva avere 35 anni, ma ne dimostrava il doppio. Mentre portiamo nel seminterrato i cartoni, una bomba cade a una decina di metri, e l’onda d’urto investe la cantina, mentre l’aria si satura di polvere da sparo. Rimaniamo immobili, trattenendo il respiro. Poi, dopo qualche minuto, quando la saluto, la guardo negli occhi. Neri. Come un "buco nero". Speriamo che l’evacuazione imposta da Zelensky la salvi, insieme alla popolazione stremata del Donbas. (raffaele luise)

di Raffaele Luise