Bailamme
La periferia, lo straniero: domanda di giustizia e fraternità

Da fuori

 Da fuori  QUO-148
01 luglio 2022

«Che senso ha questo stare continuamente in compagnia?» È la domanda che si pongono gli enigmatici Cinque amici di uno dei racconti brevi di Franz Kafka intitolato Comunità. «Vivono una vita tranquilla» fino a quando non compare il Sesto, che sistematicamente respingono nonostante i suoi tenaci e incalzanti tentativi di stare dentro al gruppo. I Cinque ammettono di non sapere quale sia il vincolo, il legame che li fa stare insieme. Tuttavia, la conciliante e consolatoria forza dell’abitudine sembra prevalere sullo sforzo di andare fino in fondo all’inquietante interrogativo: Che senso ha questo stare continuamente in compagnia?

La società occidentale oggi è turbata dall’inquietante presenza di un’assente: lo straniero, l’abitante della periferia, gli scartati. L’incalzante presenza di questa periferica umanità sofferente morde il torpore dell’indifferenza. Chi non-appartiene al dentro è testimone di una fenditura, di una ferita aperta dalla negazione che si afferma come esclusione.

Ci ritroviamo all’interno di un disciplinato ordinamento sociale nel quale ognuno sembra sapere perfettamente come fare le cose, ma non perché. L’intera società occidentale si vede risucchiata nel vertiginoso gorgo del fine che manca, allucinata dal pragmatismo utilitaristico del come, senza perché. Interamente piegata alle esigenze del mercato capitalistico la tecnocrazia globalizza la sua logica bulimica e predatrice dove — come sostiene Marc Augé — «la sovrabbondanza dei nostri mezzi sembrerebbe impedirci di riflettere sui fini». Paghiamo in disumanità il caro prezzo dell’ambizione scientifica e l’arroganza tecnologica. La ferrea logica tecnologica rende l’essere umano un dispositivo di programmata obsolescenza alla stregua di una merce, vita utile solo a valore di scambio. Centinaia di migliaia di essere umani, milioni di vite da scarto, accalcate alle frontiere delle società opulente sono l’occasione per venir fuori dal cinismo ben informato che utilizza l’ordine tecnocratico per occultare il non-senso di mancata umanità. La presenza negata dello straniero è in grado di depotenziare la logica strumentale che scherma la deprivazione di senso del comune? L’ordinata, egemonica e ostinata sistemazione del proprio, che nasconde con insidioso senso comune il non-senso di disumanità asfissiante, potrebbe essere scalzata dal sordo clamore delle periferie del mondo? Presenza interpellante di un fuori che con destituente potenza domanda giustizia, scomoda la conciliante e accomodante versione di credersi al centro del mondo.

Nel racconto di Kafka è il Sesto colui che sovverte la tranquilla assuefazione dell’assetto dei Cinque. Il Sesto, testimone silenzioso del fuori. Silenzio assordante della presenza dell’assente. L’Altro del Medesimo. L’Oltre dell’individuale ricalcitrante del proprio. Perché non tentare di pensarci da fuori? Perché non provare ad interrogare il nostro paradigma culturale a partire dalla domanda destituente di giustizia? Perché? Perché no?

La più insidiosa forma di desocializzazione assunta dall’attuale e dominante paradigma culturale tecnocratico allontana la vita da ogni sua forma comunitaria. La domanda dei personaggi kafkiani — che senso può avere questo stare continuamente in compagnia? — potrebbe scalfire la fobia del contagio, la paura dell’altro, il terrore per ciò che è fuori. L’individuo, perfettamente isolato e protetto dagli altri, si vede garantito in quello che viene fomentato come il suo principale e impellente bisogno: quello di protezione, sicurezza. Tipica concezione dell’individualismo proprietario dove gli aspetti sociali della vita in comune fungono soltanto da cornice all’egoismo dell’individuo ritirato in se stesso. Ognuno, reclamando per sé la garanzia del proprio interesse, maschera di legalità il privilegio della separazione dalla comunità: «ciò che resta in comune — afferma il filosofo Roberto Esposito — non è altro che la reciproca separazione».

Ed è così, che, gettando lo sguardo fuori, abbandonando la prigione del linguaggio tecnocratico, potremmo articolare un linguaggio alternativo, interrompendo verticalmente l’immanenza del lessico strumentale della merce saturo di se stesso. La potenza istituente della giustizia è chiamata così a muoversi in un’altra regione, oltre la regione mediana della rivendicazione del proprio, “altra” rispetto alla regione mediana del diritto rivendicato come privilegio, che è sempre violento, e del proprio, contro il comune. 

di Diego Flores