Al Colosseo la Via Crucis presieduta da Papa Francesco

Storie, e «guerre», di tutti i giorni

 Storie, e «guerre»,  QUO-088
16 aprile 2022

Sono «più guerra» gli orrori che emergono dalle fosse comuni in Ucraina o è «più guerra» decretare la morte di un bambino nella pancia della mamma con l’«accusa» di essere disabile? Oppure è «più guerra» non tendere la mano a una persona — sì, di nuovo, anche di un bambino — che sta per affogare nel Mediterraneo? Esistono classifiche per i sacrilegi? Cosa suscita più scandalo?

È stata uno schiaffo in faccia la Via Crucis presieduta dal Papa al Colosseo, la sera del Venerdì santo, 15 aprile.

Uno schiaffo ben assestato al volto di ciascuno — con una bella scrollata a mondanità e indignazioni a buon mercato — perché un gruppo di famiglie ha riproposto l’essenzialità dell’esperienza della croce: senza giri di parole, proprio attraverso storie di vita vissuta.

Sì, compagni di strada di una Via crucis vera, quotidiana, che non dura solo una sera. Il Venerdì santo, probabilmente, è il giorno migliore per ricordarlo.

La quotidianità della croce, si potrebbe dire. Nascosta nell’anonimato di un condominio, dietro la porta di un vicino di casa. E lontana, assai lontana, dai riflettori.

Francesco queste storie ha voluto condividerle il Venerdì santo. Sì, in mondovisione. Nello scenario straordinario del Colosseo, con diecimila persone, nella sera di Roma.

E, purtroppo, nella notte del mondo.

Francesco ha seguito in silenzio la Via crucis raccontata — con e senza parole, con gesti — dalle famiglie. Al termine il Pontefice ha pronunciato la preghiera che pubblichiamo in questa pagina. E ha impartito la benedizione apostolica.

Sì, le 14 meditazioni proposte sono ispirate alle storie personali delle famiglie che hanno portato la croce durante la celebrazione: una coppia di giovani sposi; una famiglia in missione in Perú (con due gemelli nati il 14 marzo); una coppia di sposi anziani senza figli; una famiglia con 5 figli; una famiglia con un figlio con disabilità; una famiglia che gestisce una casa di accoglienza con persone non autosufficienti e con disagi psichici; una famiglia con un genitore malato; una coppia di nonni; una famiglia con figli adottivi; una donna, con figli, che ha perso il marito; una famiglia con un figlio e una figlia consacrati; una famiglia che si confronta con la morte di una figlia per un tumore; una famiglia ucraina e una famiglia russa; una famiglia di migranti di origine congolese, oggi indipendenti e con due figli.

E proprio i migranti, all’ultima stazione, hanno passato la croce al cardinale vicario Angelo De Donatis — che con i vescovi ausiliari della diocesi di Roma ha accompagnato le famiglie nell’itinerario della Via crucis — per poi salutare personalmente il Papa.

In particolare, alla tredicesima stazione la croce è stata portata insieme da due donne: Irina e Albina, una ucraina e una russa, 42 e 40 anni, la prima con tre figli e la seconda con due, divenute amiche lo scorso anno perché colleghe nel Centro di cure palliative “Insieme nella cura” della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma. Significativo il breve testo della meditazione («Gesù muore sulla croce» ricorda la tredicesima stazione) che è stato così proposto: «Di fronte alla morte il silenzio è più eloquente delle parole. Sostiamo pertanto in un silenzio orante e ciascuno nel cuore preghi per la pace nel mondo». La Sala stampa della Santa Sede ha reso noto che «si tratta di un cambiamento previsto», rispetto a quello diffuso in precedenza «che limita il testo al minimo per affidarsi al silenzio e alla preghiera».

Gli sguardi, senza il sottofondo di una sola parola, tra Irina e Albina e tra le famiglie che quella croce se la sono passata nelle 14 stazioni della Via crucis hanno «detto» persino di «più» delle forti, dirette, chiare, incalzanti, testimonianze di vita.

Passandosi la croce di mano in mano, quelle famiglie — davanti al Papa, davanti al mondo — hanno rappresentato tutte, ma proprio tutte le famiglie del mondo e hanno ricordato che sì, c’è il buio. Ma anche la speranza. E che sulla croce non si è mai da soli. Anche, e forse soprattutto, quando si è convinti — disperati — di essere soli. Nessuno si salva da solo, insomma.

Lo schiaffo di ieri sera ha bruscamente fatto presente che in una di quelle 14 stazioni... beh, ci poteva essere ogni famiglia del mondo. A ciascuno, tra croce e speranza, poteva essere chiesto di condividere la propria di storia, perché altre famiglie vi si riconoscessero. Trovando insieme — e forse proprio questa è la parola-chiave: insieme — nuovi sguardi di speranza. Pur con le braccia e gambe tese e inchiodate sulla croce.

Quello schiaffo, ieri sera, ha “costretto” ogni famiglia a chiedersi che cosa avrebbe detto di sé. Raccontando il dolore ma anche intravedendo orizzonti di vita.

Perché quelle famiglie che hanno portato la croce al Colosseo non sono composte da gente famosa e non sono neanche «più brave». No, si sono presentate con umiltà e anche con una buona dose di coraggio. Perché ci vuole coraggio — condito con lacrime — a raccontare i propri limiti, le proprie paure, le proprie sconfitte, i propri fallimenti. Il proprio essere donne e uomini. Bambini. Feriti, in alcuni casi a morte.

E non hanno detto certo «di meno» quei ragazzi — Giorgio Maria con la sindrome di Down o Alfredo con una malattia genetica rara che gli impedisce quasi ogni movimento o con un disagio psichico —, anzi con la logica della croce, probabilmente, sono quelli che hanno parlato «di più». E più efficacemente.

Accanto ai loro genitori — sono genitori anche quelli che li hanno accolti nella casa famiglia — che sicuramente non accettano di definirli “una croce”. Perché vivono una gioia, con loro e tramite loro. Pur nella consapevolezza di una sofferenza che morde la carne, certo.

Al Colosseo — negli ultimi due anni, a causa della pandemia, la Via Crucis del Venerdì santo si era svolta in piazza San Pietro — erano presenti tra gli altri il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, che ha accolto il Pontefice, il cardinale Tagle, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, l’arcivescovo Peña Parra, sostituto per gli Affari generali, con l’assessore, monsignor Cona.

Prima di lasciare il Colosseo, il Papa ha personalmente salutato due rappresentanti delle famiglie che hanno ispirato le meditazioni e portato la croce: significativamente proprio i due che vivono l’esperienza della disabilità sulla sedia a rotelle.

di Giampaolo Mattei