Il magistero

 Il magistero  QUO-086
14 aprile 2022

Venerdì 8

Una giustizia
che lotti
contro
corruzione
e clientelismi

Siete stati chiamati a una missione nobile e delicata: rappresentate l’organo di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza dei magistrati ordinari e avete il compito di amministrare la giurisdizione.

Il popolo chiede giustizia e la giustizia ha bisogno di verità, di fiducia, di lealtà e di purezza di intenti.

Ascoltare ancora oggi il grido di chi non ha voce e subisce un’ingiustizia vi aiuta a trasformare il potere ricevuto dall’Ordinamento in servizio a favore della dignità della persona umana e del bene comune.

Nella tradizione la giustizia si definisce come la volontà di rendere a ciascuno secondo ciò che gli è dovuto.

Tuttavia, nel corso della storia sono diversi i modi in cui l’amministrazione della giustizia ha stabilito “ciò che è dovuto”: secondo il merito, secondo i bisogni, secondo le capacità, secondo la sua utilità.

Per la tradizione biblica il dovuto è riconoscere la dignità umana come sacra e inviolabile.

L’arte classica ha rappresentato la giustizia come una donna bendata che regge una bilancia con i piatti in equilibrio, volendo così esprimere allegoricamente l’uguaglianza, la giusta proporzione, l’imparzialità richieste nell’esercizio della giustizia.

Secondo la Bibbia occorre anche, in più, amministrare con misericordia.

Ma nessuna riforma politica della giustizia può cambiare la vita di chi la amministra, se prima non si sceglie davanti alla propria coscienza “per chi”, “come” e “perché” fare giustizia.

È una decisione della coscienza.

Così insegnava santa Caterina da Siena, quando sosteneva che per riformare occorre prima riformare sé stessi.

La domanda sul per chi amministrare la giustizia illumina sempre una relazione con quel “tu”, quel “volto”, a cui si deve una risposta: la persona del reo da riabilitare, la vittima con il suo dolore da accompagnare, chi contende su diritti e obblighi, l’operatore della giustizia da responsabilizzare e, in genere, ogni cittadino da educare e sensibilizzare.

Antidoto
alla vendetta

La cultura della giustizia riparativa è l’unico e vero antidoto alla vendetta e all’oblio, perché guarda alla ricomposizione dei legami spezzati e permette la bonifica della terra sporcata dal sangue del fratello.

Questa è la strada che, sulla scia della dottrina sociale della Chiesa, ho voluto indicare nell’Enciclica Fratelli tutti, come condizione per la fraternità e l’amicizia.

L’atto violento e ingiusto di Caino non colpisce il nemico o lo straniero: è compiuto contro chi ha lo stesso sangue.

Caino non può sopportare l’amore di Dio Padre verso Abele, il fratello con cui condivide la sua stessa vita.

Come non pensare alla nostra epoca storica di globalizzazione diffusa, in cui l’umanità si trova a essere sempre più interconnessa eppure sempre più frammentata in una miriade di solitudini esistenziali?

Questo rapporto che sembra contraddittorio tra la interconnessione e la frammentazione: ambedue insieme.

Come mai? È la nostra realtà: interconnessi e frammentati.

La proposta della visione biblica è, al cuore del suo messaggio, l’immagine di un’identità fraterna dell’intera umanità, intesa come “famiglia umana”: una famiglia in cui riconoscersi fratelli è un’opera a cui lavorare insieme e incessantemente, sapendo che è sulla giustizia che si fonda la pace.

Quando le tensioni e le divergenze crescono, per farsi nutrire dalle radici spirituali e antropologiche della giustizia occorre fare un passo indietro. E poi, insieme agli altri, farne due in avanti.

Così, la domanda storica sul “come” si amministra la giustizia passa sempre dalle riforme.

Potare i rami secchi senza amputare
l’albero

Il Vangelo di Giovanni, al capitolo 15, ci insegna a potare i rami secchi senza però amputare l’albero della giustizia, per contrastare così le lotte di potere, i clientelismi, le varie forme di corruzione, la negligenza e le ingiuste posizioni di rendita.

Questa problematica, queste situazioni brutte voi le conoscete bene, e tante volte dovete lottare fortemente perché non crescano.

Il “perché” amministrare ci rimanda invece al significato della virtù della giustizia, che per voi diventa un abito interiore: non un vestito da cambiare o un ruolo da conquistare, ma il senso stesso della vostra identità personale e sociale.

Per la Bibbia “saper rendere giustizia” è il fine di chi vuole governare con sapienza, mentre il discernimento è la condizione per distinguere il bene dal male.

La tradizione filosofica ha indicato la giustizia come virtù cardinale per eccellenza, alla cui realizzazione concorrono la prudenza, quando i principi generali si devono applicare alle situazioni concrete, insieme alla fortezza e alla temperanza, che ne perfezionano il conseguimento.

Dal racconto biblico non emerge un’idea astratta di giustizia, ma un’esperienza concreta di uomo “giusto”.

Il processo a Gesù è emblematico: il popolo chiede di condannare il giusto e di liberare il malfattore. Pilato si domanda: “Ma che cosa ha fatto di male costui?”, poi però se ne lava le mani.

Quando si alleano i grandi poteri per auto-conservarsi, il giusto paga per tutti.

Sono la credibilità della testimonianza, l’amore per la giustizia, l’autorevolezza, l’indipendenza dagli altri poteri costituiti e un leale pluralismo di posizioni gli antidoti per non far prevalere le influenze politiche, le inefficienze e le varie disonestà.

Governare la Magistratura secondo virtù significa ritornare a essere presidio e sintesi alta dell’esercizio cui siete stati chiamati.

Il Beato Rosario Livatino, il primo magistrato Beato nella storia della Chiesa, vi sia di aiuto e di conforto.

Nella dialettica tra rigore e coerenza da un lato, e umanità dall’altro, aveva delineato la sua idea di servizio nella Magistratura pensando a donne e uomini capaci di camminare con la storia e nella società, all’interno della quale non soltanto i giudici, ma tutti gli agenti del patto sociale sono chiamati a svolgere la propria opera secondo giustizia.

L’esempio
del beato
Livatino

«Quando moriremo — sono le parole di Livatino —, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». È stato assassinato a soli trentotto anni, lasciandoci la forza della sua testimonianza credibile, ma anche la chiarezza di un’idea di Magistratura a cui tendere.

La giustizia deve sempre accompagnare la ricerca della pace, la quale presuppone verità e libertà.

Non si spenga il senso di giustizia nutrito dalla solidarietà nei confronti di coloro che sono vittime dell’ingiustizia e dal desiderio di vedere realizzarsi un regno di pace.

(Discorso al Consiglio superiore
della magistratura italiana)

Nella carità
lavorare non solo “per” ma “con” la gente

Sono contento di incontrarvi e di ringraziare con voi il Signore per 40 anni di attività della Fondazione Marcello Candia. Lui stesso la fondò nel 1982, e l’anno dopo partì per il Cielo.

Ora noi lo veneriamo e chiediamo la sua intercessione, specialmente per i malati e i più poveri ed emarginati del Nord Est del Brasile, dove ha lavorato per tanti anni.

Vi ringrazio per le vostre iniziative. Soprattutto per il metodo e lo stile con cui le portate avanti, improntati al mandato che Marcello Candia ricevette da Paolo vi .

Vorrei riprendere queste indicazioni. Anzitutto, disse a Candia: “Se fa un ospedale in Brasile, lo faccia brasiliano…”. Cioè ben inserito nella realtà locale, coinvolgendo la gente del posto... Anche se magari un po’ di stile milanese lo avrà messo!

L’inculturazione: prendere la cultura del posto dove andiamo a lavorare.

“Faccia attenzione — continuava — ad evitare ogni sorta di paternalismo, non imponga le sue idee ad altri, anche con buona intenzione”.

Candia era un imprenditore, era abituato a decidere in prima persona, perciò doveva imparare a guidare le cose in un altro modo.

“Faccia l’ospedale non solo per i brasiliani, ma con i brasiliani”. Non solo per, ma con. Questo è importante, è una regola generale della carità: lavorare con le persone destinatarie del servizio.

E aggiungeva: “Si proponga come obiettivo finale di non essere più necessario”. Questo è saggio!

Tante volte qui, anche noi nella Chiesa, troviamo gente di valore, preti, vescovi, ma credono che la storia della salvezza passi da loro, di essere necessari.

Nessuno, nessuno è necessario assolutamente. È necessario per fare quello che deve fare, e poi, che la storia, Dio, diranno se continuo io, se viene un altro…

“E si proponga come obiettivo finale di non essere più necessario”. Saggio. Quando Lei si accorgerà che l’Ospedale cammina da solo, allora “Lei avrà realizzato una vera opera di solidarietà umana”.

Anche questa è una regola molto saggia: non legare a sé le persone e le opere, non rendersi indispensabili, ma al contrario formare i collaboratori e assicurare stabilità e continuità. Con i collaboratori. Niente paternalismo, no, far crescere.

Costi contenuti

Mi congratulo perché voi vi sforzate di seguire questa strada. Infatti, la Fondazione non gestisce in proprio le opere, ma sostiene le comunità locali e i missionari nelle iniziative con malati, lebbrosi e persone in diverse situazioni di bisogno.

Un altro merito è che i costi di mantenimento della Fondazione sono minimi, quasi tutto va alle opere in Brasile.

Questo è importante, perché ci sono organizzazioni e associazioni di lavoro per fare del bene, ma hanno una struttura di gente, di cose che — non esagero — la metà o il 60% vanno a pagare gli stipendi. Questo non va bene.

Il minimo, perché la maggior parte dei soldi vada alla gente.

Non dimenticate di pregare per me perché questo lavoro non è facile, per niente.

(Ai membri della Fondazione Marcello Candia)

Sabato 9

Il vero spirito
sportivo
prepara
a non cadere
nella tragedia
della guerra

Siete rappresentanti di una realtà sportiva, i cui soci gareggiano in più discipline, e questo evoca il movimento, il mettersi in cammino. È importante per ogni fascia di età, specialmente per i giovani, non fermarsi di fronte agli ostacoli della vita, ma superare le difficoltà con la tenacia, la fiducia in Dio e in sé stessi e nell’aiuto degli altri.

Attraverso lo sport, siete chiamati a promuovere i valori del sano agonismo, dell’amicizia, della solidarietà.

Si tratta di diffondere una cultura sportiva che concepisca la pratica dello sport non soltanto come fattore di benessere fisico, ma come ideale coraggioso, come strumento di crescita integrale della persona.

Nel corso degli anni, vi siete sforzati di proporre il vostro Circolo come palestra di formazione umana.

Vi incoraggio a perseverare perché bambini, giovani e adulti possano coltivare, attraverso le varie discipline sportive, valori essenziali: l’amore per la verità e la giustizia, il rispetto del creato, il gusto della bellezza e della bontà, la ricerca della libertà e della pace.

A volte il mondo dello sport sembra subire i condizionamenti delle logiche del profitto e dell’agonismo esasperato, che può degenerare anche in episodi di violenza.

È compito anche delle realtà come la vostra testimoniare la forza morale dell’attività sportiva che, se vissuta rettamente, aiuta a stabilire buone amicizie e favorisce la costruzione di un mondo più sereno e fraterno, nel quale ci si sostiene e ci si aiuta a vicenda.

È importante coltivare la dimensione di “amatorialità”.

Se uno sport non è amatoriale, manca qualcosa.

Coltivare questa amatorialità per non cadere in interessi di altro genere.

Specialmente a voi, giovani atleti, auguro di praticare lo sport con lealtà e sano spirito agonistico.

Vi aiuterà ad affrontare la gara impegnativa della vita con coraggio e onestà, con gioia e serena fiducia nel futuro, fermandovi ad aspettare pazientemente chi è più lento e fa più fatica a camminare.

Il vostro presidente ha fatto due accenni che voglio riprendere.

Il primo è l’Ucraina. Noi non possiamo in questi giorni parlare di altre cose senza almeno ricordare, ricordare la crudeltà alla quale si può arrivare.

Lo spirito sportivo di amatorialità, è una preparazione per non cadere in queste cose; coltivare l’amicizia umana ci prepara a non cadere in questa tragedia e pensare a quella gente che è vittima di questa tragedia.

La seconda cosa non la dico perché ve l’ha detta il vostro Presidente: che voi preghiate per me. Grazie, ne ho bisogno, perché questo “sport” non è facile!

(Al Reale Circolo Canottieri Tevere Remo)

Mercoledì 13

Ogni guerra è un tradimento blasfemo
del Signore della Pasqua

Siamo al centro della Settimana Santa, che si snoda dalla Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua. Entrambe queste domeniche si caratterizzano per la festa che viene fatta intorno a Gesù. Ma sono due feste diverse.

Domenica scorsa abbiamo visto Cristo entrare solennemente a Gerusalemme, come una festa, accolto come Messia: e per Lui vengono stesi sulla strada mantelli e rami tagliati dagli alberi.

La folla esultante benedice a gran voce «colui che viene, il re», e acclama: «Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli».

Quella gente festeggia perché vede nell’ingresso di Gesù l’arrivo di un nuovo re, che avrebbe portato pace e gloria.

Ecco qual era la pace attesa da quella gente: una pace gloriosa, frutto di un intervento regale, quello di un messia potente che avrebbe liberato Gerusalemme dall’occupazione dei Romani.

Altri, probabilmente, sognavano il ristabilimento di una pace sociale e vedevano in Gesù il re ideale, che avrebbe sfamato le folle di pani, come aveva già fatto, e operato grandi miracoli, portando così più giustizia nel mondo.

Ma Gesù non parla mai di questo. Ha davanti a sé una Pasqua diversa, non una Pasqua trionfale.

L’unica cosa a cui tiene per preparare il suo ingresso a Gerusalemme è cavalcare «un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno».

Mansuetudine e mitezza

Ecco come Cristo porta la pace nel mondo: attraverso la mansuetudine e la mitezza, simboleggiate da quel puledro legato, su cui nessuno era salito.

Nessuno, perché il modo di fare di Dio è diverso da quello del mondo.

Gesù, infatti, appena prima di Pasqua, spiega ai discepoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace non come la dà il mondo, io la do a voi».

Sono due modalità diverse: un modo come il mondo ci dà la pace e un modo come Dio ci dà la pace. Sono diversi.

La pace che Gesù ci dà a Pasqua non è la pace che segue le strategie del mondo, il quale crede di ottenerla attraverso la forza, con le conquiste e forme di imposizione.

Questa pace è solo un intervallo tra le guerre: lo sappiamo bene.

La pace del Signore segue la via della mitezza e della croce: è farsi carico degli altri. Cristo, infatti, ha preso su di sé il nostro male, il nostro peccato e la nostra morte. Ha preso su di sé tutto questo.

Così ci ha liberati. Lui ha pagato per noi. La sua pace non è frutto di qualche compromesso, ma nasce dal dono di sé.

Questa pace mite e coraggiosa, però, è difficile da accogliere. Infatti, la folla che osannava Gesù è la stessa che dopo pochi giorni grida “Crocifiggilo” e, impaurita e delusa, non muove un dito per Lui.

A questo proposito, è sempre attuale un grande racconto di Dostoevskij, la cosiddetta Leggenda del Grande Inquisitore.

Si narra di Gesù che, dopo vari secoli, torna sulla Terra. Subito è accolto dalla folla festante, che lo riconosce e lo acclama. “Ah, sei tornato! Vieni, vieni con noi!”.

Ma poi viene arrestato dall’Inquisitore, che rappresenta la logica mondana.

Ha rispettato la nostra
libertà

Questi lo interroga e lo critica ferocemente. Il motivo finale del rimprovero è che Cristo, pur potendo, non ha mai voluto diventare Cesare, il più grande re di questo mondo, preferendo lasciare libero l’uomo anziché soggiogarlo e risolverne i problemi con la forza.

Avrebbe potuto stabilire la pace nel mondo, piegando il cuore libero ma precario dell’uomo in forza di un potere superiore, ma non ha voluto: ha rispettato la nostra libertà. «Tu — dice l’Inquisitore a Gesù —, accettando il mondo e la porpora dei Cesari, avresti fondato il regno universale e dato la pace universale» (I fratelli Karamazov); e con sentenza sferzante conclude: «Se c’è qualcuno che ha meritato più di tutti il nostro rogo, sei proprio Tu».

Ecco l’inganno che si ripete nella storia, la tentazione di una pace falsa, basata sul potere, che conduce all’odio e al tradimento di Dio e a tanta amarezza nell’anima.

Alla fine, secondo questo relato, l’Inquisitore vorrebbe che Gesù «gli dicesse qualche cosa, magari anche qualche cosa di amaro, di terribile».

Ma Cristo reagisce con un gesto dolce e concreto: «gli si avvicina in silenzio, e lo bacia dolcemente sulle vecchie labbra esangui».

La pace di Gesù non sovrasta gli altri, non è mai una pace armata: mai! Le armi del Vangelo sono la preghiera, la tenerezza, il perdono e l’amore gratuito al prossimo, l’amore a ogni prossimo. È così che si porta la pace di Dio nel mondo.

Ecco perché l’aggressione armata di questi giorni, come ogni guerra, rappresenta un oltraggio a Dio, un tradimento blasfemo del Signore della Pasqua, un preferire al suo volto mite quello del falso dio di questo mondo.

Idolatria
del potere

Sempre la guerra è un’azione umana per portare all’idolatria del potere.

Gesù, prima della sua ultima Pasqua, disse ai suoi: «Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore».

Perché mentre il potere mondano lascia solo distruzione e morte — lo abbiamo visto in questi giorni —, la sua pace edifica la storia, a partire dal cuore di ogni uomo che la accoglie.

Pasqua è allora la vera festa di Dio e dell’uomo, perché la pace, che Cristo ha conquistato sulla croce nel dono di sé, viene distribuita a noi.

Perciò il Risorto, il giorno di Pasqua, appare ai discepoli e come li saluta? «Pace a voi!».

Questo è il saluto di Cristo vincitore, di Cristo risorto.

Pasqua significa “passaggio”. È, soprattutto quest’anno, l’occasione benedetta per passare dal dio mondano al Dio cristiano, dall’avidità che ci portiamo dentro alla carità che ci fa liberi, dall’attesa di una pace portata con la forza all’impegno di testimoniare concretamente la pace di Gesù.

Mettiamoci davanti al Crocifisso, sorgente della nostra pace, e chiediamogli la pace del cuore e la pace nel mondo.

Ai polacchi

Quest’anno celebrate in modo speciale la Settimana Santa e la Pasqua: insieme a molti ospiti ucraini.

La Pasqua è una festa di famiglia e voi, aprendo a loro le vostre case, siete diventati loro famigliari.

Anche se la maggior parte di essi celebrerà queste feste una settimana più tardi, secondo la tradizione orientale, già ora tutti voi insieme contemplate il Crocifisso, e aspettate la risurrezione di Cristo e la pace in Ucraina.

(Udienza generale nell’Aula Paolo vi )