Il magistero

 Il magistero  QUO-074
31 marzo 2022

Sabato 26

Carità
contro lo
sfruttamento di donne
e bambini

Il Capitolo, che in ogni famiglia religiosa rappresenta un momento fondamentale del cammino della sua vita, significa incontro, dialogo, responsabilità, comunione evangelica. Non significa chiacchiericcio.

Mi piace pensare che abbiate voluto affidare in custodia a San Giuseppe i vostri lavori. Questo modello lo ritroviamo anche nel vostro Fondatore, sant’Antonio Maria Gianelli.

Qualcuno lo chiama “il Santo di ferro”, ma era molto umano. Il ferro è riferito alla santità, ma è una persona tenera!

È stato un apostolo del Vangelo del lavoro, elemento essenziale della vita personale, familiare e sociale.

Un operaio zelante nel campo del Signore, dedito al servizio alla Parola di Dio, sia con la predicazione sia nelle opere.

Ha testimoniato e annunciato la fede nella provvidenza di Dio, ha mostrato la via della santità e ha attirato a percorrerla, dando esempio di carità concreta e premurosa per gli ultimi e gli emarginati.

Con questo scopo diede vita nel 1829, a Chiavari dove era parroco, a un servizio cari affidato ad alcune donne, chiamate le “Signore della Carità”, da cui prese forma il vostro Istituto.

Vi siete diffuse in diverse parti del mondo e avete cercato di realizzare la vocazione ricevuta, compiendo la missione evangelizzatrice con il lavoro della carità.

Il tema che avete scelto per questo Capitolo, “Attente al mondo, con il cuore in Dio”, traduce bene l’ispirazione gianelliana del prendersi cura, del farsi prossimo, del fare il bene, radicato nella vita consacrata.

Una tensione: stare in Dio ma andare alle periferie più bisognose.

Vi siete chieste in che modo rispondere alla sfida attuale di una cultura che non è così, è una cultura dell’autoreferenzialità, del “trucco”, dove è più importante truccarsi che crescere, che andare avanti; una cultura dello specchio. E questo è brutto.

Una cultura, un po’ egotica, che porta all’indifferenza, a guardare da un’altra parte, e questo turba l’ordine delle relazioni umane e apre alle tante scorciatoie della schiavitù dell’ingiustizia, dello sfruttamento, che offendono la dignità delle persone.

Voi che lavorate nella vita, sapete quanto sfruttamento c’è oggi in questa cultura nei confronti dei giovani, dei bambini — anche con il lavoro minorile — delle donne sfruttate, anche dei vecchi: un modo di sfruttarli è lasciarli da parte.

Contro questa cultura c’è il vostro istituto. Siete presenti in molti Paesi e incontrate tante situazioni di sofferenza, di povertà, di prepotenza.

Anche la vostra missione di evangelizzare trova ostacoli e resistenze, ma, sull’esempio di Sant’Antonio Gianelli, anziché scoraggiarvi, affrontate con fiducia e speranza questa difficoltà, sapendo di essere voi stesse le prime povere e bisognose di Dio.

Questo atteggiamento umile e coraggioso assomiglia a quello della Vergine Maria di fronte alle sue prove.

Esso fa di ciascuna di voi una terra buona in cui può germogliare il seme della carità, che siete chiamate a “innaffiare” ogni giorno con la preghiera, in particolare con l’adorazione.

Da un cuore immerso in Dio vengono i frutti di una vita che profuma di Vangelo: ricca di comprensione, ricca di fraternità, di tenerezza, di gioia, di dono di sé.

Il mondo ha sete di questa vita buona, ma da solo non può darsela; ha bisogno di vederla testimoniata, e non da persone fenomenali, ma da persone semplici, da persone con limiti e debolezze come noi e tuttavia piene della forza dello Spirito Santo.

Con queste radici, con questa solidità interiore, potete andare per le strade del mondo e farvi “attente al mondo”.

Vorrei suggerivi due tracce.

La prima è: attento al mondo è chi sa stupirsi, chi è aperto a cogliere i semi del regno di Dio presenti nella realtà, perché sa che lo Spirito Santo è sempre all’opera e lavora liberamente e in maniera spesso sorprendente.

“Attenzione” dunque non come giudizio, o pregiudizio, non come sospetto o diffidenza o paura, ma come sano realismo, come semplicità, saper prendere le situazioni e le persone così come sono e accompagnarle nel cammino della vicinanza a Dio e della maturazione nel Signore.

La seconda: attento al mondo è chi non rimane “al balcone”.

Questa è una delle cose più brutte: un cristiano che è “al balcone”... guardare le cose in maniera asettica, che non entra in contatto con il mondo.

Non rimanere al balcone, non osservare con distacco, ma avvicinarsi, chinarsi, toccare con mano.

Attenzione dunque come vicinanza, farsi prossimo, prendersi cura.

E avete l’ottima scuola del Fondatore, che vi ha insegnato a essere buone samaritane, sempre in viaggio ma pronte a fermarsi per prendersi cura dei poveri, dei feriti, fasciare le piaghe e ascoltare, ascoltare tanto, per guarire dall’indifferenza, dalla solitudine, e per restituire dignità.

Ogni volta che noi ci avviciniamo con la carità, con l’amore a una persona, le restituiamo dignità.

Anche tra noi, a casa ci sono le ferite, c’è la solitudine, le fatiche fisiche e morali.

Un nemico di questa fraternità è il chiacchiericcio.

Vi ringrazio per la vostra presenza vicina ai più poveri. I problemi e le difficoltà non vi spaventino, andate avanti sempre fedeli al carisma originario.

Fedeltà
creativa

Ma una fedeltà creativa, guidata dal discernimento paziente, saggio, coraggioso, illuminato dalla Parola di Dio, dal Magistero della Chiesa e dal consiglio di persone esperte e competenti.

(Al capitolo generale dell’Istituto Figlie di Maria SS.ma dell’Orto)

Finisca presto questa guerra vergognosa
per l’umanità

Fate parte del vasto e multiforme movimento del volontariato italiano, che non finisco mai di apprezzare e che merita di essere incoraggiato e sostenuto.

Voi mettete al servizio della società la vostra passione di radio-amatori. L’avete fatta diventare uno strumento efficace di protezione civile e di solidarietà con le persone più bisognose e fragili e con i gruppi sociali più vulnerabili.

Questo è molto bello: una passione personale che diventa servizio sociale.

È il principio dei doni, dei talenti, fatti fruttare per il bene comune.

Una vostra caratteristica è quella della rapidità dell’intervento, grazie alla radio in sé stessa, che supera le barriere, ma anche grazie alla vostra rete.

Non è un’azione individuale, la vostra forza sta proprio nella presenza capillare sul territorio e nella possibilità di far circolare notizie e informazioni molto velocemente e dappertutto.

Un altro aspetto essenziale è la libertà, l’indipendenza. Pensiamo come questo può diventare decisivo là dove un regime o un altro centro di potere voglia controllare le comunicazioni.

È fondamentale mantenere la libertà, per essere veramente al servizio delle persone, del bene comune.

Vi state impegnando a dare il vostro contributo anche al servizio dei tanti fratelli e sorelle che sono fuggiti dall’Ucraina a causa della guerra.

Vi ringrazio. Speriamo e preghiamo perché questa guerra — vergognosa per tutti noi, per tutta l’umanità — finisca al più presto: è inaccettabile; ogni giorno in più aggiunge altre morti e distruzioni.

Tanta gente si è mobilitata per soccorrere i profughi. Gente comune, specialmente nei Paesi confinanti, ma anche qui in Italia, dove sono arrivati e continuano ad arrivare migliaia di ucraini.

Il vostro contributo è prezioso, è un modo concreto, artigianale di costruire la pace.

Condivido quello che ha detto il Presidente, parlando di Protezione civile europea: l’Europa sta dando la sua risposta a questa guerra, oltre che sul piano delle alte Istituzioni, anche sul piano della società civile, delle associazioni di volontariato come la vostra.

Questo modo di reagire è fondamentale e indispensabile, rigenera il tessuto umano e sociale, in presenza di una ferita così grave e così grande come quella causata dalla guerra.

Bisogna aiutare i profughi ucraini, non solo in questo momento, ma poi, più avanti, quando la memoria della guerra si allontana, perché in quel tempo avranno più difficoltà di adesso. Occorre pensare al futuro, e non è facile.

(Ai volontari della Federazione italiana ricetrasmissioni)

Domenica 27

Il padre
misericordioso

Il Vangelo della Liturgia di questa domenica narra la cosiddetta parabola del figlio prodigo (Lc 15, 11-32).

Essa ci porta al cuore di Dio, che sempre perdona con compassione e tenerezza. Siamo noi a stancarci di chiedere perdono.

Dio è Padre e non solo riaccoglie, ma gioisce e fa festa per il suo figlio, tornato a casa dopo aver dilapidato tutti gli averi.

Siamo noi quel figlio, e commuove pensare a quanto il Padre ci ami e ci attenda.

Ma nella stessa parabola c’è anche il figlio maggiore, che va in crisi di fronte a questo Padre. E può mettere in crisi anche noi.

Infatti, dentro di noi c’è anche questo figlio maggiore e, almeno in parte, siamo tentati di dargli ragione: aveva sempre fatto il suo dovere, non era andato via di casa, perciò si indigna nel vedere il Padre riabbracciare il fratello che si era comportato male. Protesta.

Nel rapporto con il Padre egli basa tutto sulla pura osservanza dei comandi, sul senso del dovere.

Può essere anche il nostro problema, il nostro problema tra noi e con Dio: perdere di vista che è Padre e vivere una religione distante, fatta di divieti e doveri.

La rigidità conseguenza della distanza

E la conseguenza di questa distanza è la rigidità verso il prossimo, che non si vede più come fratello.

Nella parabola, infatti, il figlio maggiore non dice al Padre mio fratello; dice tuo figlio, come per dire: non è mio fratello. E alla fine proprio lui rischia di rimanere fuori di casa.

Infatti, dice il testo, «non voleva entrare». Perché c’era l’altro.

Vedendo questo, il Padre esce a supplicarlo... Cerca di fargli capire che per lui ogni figlio è tutta la sua vita.

Lo sanno bene i genitori, che si avvicinano molto al sentire di Dio.

È bello quello che dice un papà in un romanzo: «Quando sono diventato padre, ho capito Dio» (H. de Balzac, Il padre Goriot, Milano 2004, 112).

A questo punto della parabola, il Padre apre il cuore al figlio maggiore e gli esprime due bisogni, che non sono comandi, ma necessità del cuore: «Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita».

Vediamo se anche noi abbiamo i due bisogni del Padre: far festa e rallegrarsi.

Anzitutto manifestare a chi si pente o è in cammino, a chi è in crisi o è lontano, la nostra vicinanza.

Perché bisogna fare così? Perché questo aiuterà a superare la paura e lo scoraggiamento, che possono venire dal ricordo dei propri peccati.

Chi ha sbagliato, spesso si sente rimproverato dal suo stesso cuore; distanza, indifferenza e parole pungenti non aiutano.

Perciò, secondo il Padre, bisogna offrirgli una calda accoglienza, che incoraggi ad andare avanti.

“Ma padre questo ne ha fatte tante!”: calda accoglienza. E noi, facciamo così? Cerchiamo chi è lontano, desideriamo fare festa con lui?

Quanto bene può fare un cuore aperto, un ascolto vero, un sorriso trasparente; fare festa, non far sentire a disagio!

Il padre poteva dire: va bene figlio, torna a casa, torna a lavorare, vai nella tua stanza, sistemati, e al lavoro!

E questo sarebbe stato un perdono buono. Ma no! Dio non sa perdonare senza fare festa! E il padre fa festa, per la gioia che ha perché è tornato il figlio.

E poi bisogna rallegrarsi. Chi ha un cuore sintonizzato con Dio, quando vede il pentimento di una persona, per quanto gravi siano stati i suoi errori, se ne rallegra.

Non rimane fermo sugli sbagli, non punta il dito sul male, ma gioisce per il bene, perché il bene dell’altro è anche il mio!

E noi, sappiamo vedere gli altri così?

(Angelus in piazza San Pietro)

Mercoledì 30

Gli anziani
prime vittime di una società insensibile
e superficiale

Nel nostro itinerario di catechesi sul tema della vecchiaia, oggi guardiamo al tenero quadro dipinto dall’evangelista san Luca, che chiama in scena due figure di anziani, Simeone e Anna.

La loro ragione di vita, prima di congedarsi da questo mondo, è l’attesa della visita di Dio.

Aspettavano che venisse Dio a visitarli.

Simeone sa, per una premonizione dello Spirito Santo, che non morirà prima di aver visto il Messia.

Anna frequenta ogni giorno il tempio dedicandosi al suo servizio.

Entrambi riconoscono la presenza del Signore nel bambino Gesù, che colma di consolazione la loro lunga attesa e rasserena il loro congedo dalla vita.

Questa è una scena di incontro con Gesù, e di congedo.

Che cosa possiamo imparare da questi due anziani pieni vitalità spirituale?

Intanto, impariamo che la fedeltà dell’attesa affina i sensi.

Lo Spirito Santo fa proprio questo: illumina i sensi.

Nell’antico inno Veni Creator Spiritus, con cui invochiamo ancora oggi lo Spirito, diciamo: «Accende lumen sensibus», accendi una luce per i sensi, illumina i nostri sensi.

Lo Spirito è capace di fare questo: acuisce i sensi dell’anima, nonostante i limiti e le ferite dei sensi del corpo.

La vecchiaia indebolisce la sensibilità del corpo: uno è più cieco, uno più sordo...

Tuttavia una vecchiaia che si è esercitata nell’attesa di Dio non perderà il suo passaggio: anzi, sarà anche più pronta, avrà più sensibilità per accogliere il Signore.

Un atteggiamento del cristiano è stare attento alle visite del Signore, perché il Signore passa nella nostra vita con le ispirazioni, con l’invito a essere migliori.

Sant’Agostino diceva: “Ho paura di Dio quando passa... ho paura di non accorgermene e lasciarlo passare”.

È lo Spirito Santo che prepara i sensi per capire quando il Signore ci sta facendo una visita, come ha fatto con Simeone e Anna.

C’è bisogno di una vecchiaia coi sensi
spirituali vivi

Oggi abbiamo più che mai bisogno di questo: abbiamo bisogno di una vecchiaia dotata di sensi spirituali vivi e capace di riconoscere il Segno di Dio, che è Gesù.

Un segno che ci mette in crisi, sempre: Gesù ci mette in crisi perché è «segno di contraddizione», ma ci riempie di letizia.

La crisi
non sempre
porta tristezza

Perché la crisi non necessariamente ti porta la tristezza, no: essere in crisi, rendendo il servizio al Signore, tante volte ti dà una pace e una letizia.

L’anestesia dei sensi spirituali — e questo è brutto — nell’eccitazione e nello stordimento di quelli del corpo, è una sindrome diffusa in una società che coltiva l’illusione dell’eterna giovinezza, e il suo tratto più pericoloso sta nel fatto che essa è per lo più inconsapevole.

Non ci si accorge di essere anestetizzati. E questo succede: è sempre successo e succede nei nostri tempi.

I sensi anestetizzati, senza capire cosa succede; i sensi interiori, i sensi dello spirito per capire la presenza di Dio o la presenza del male, anestetizzati, non distinguono.

Quando perdi la sensibilità del tatto o del gusto, te ne accorgi subito.

Invece, quella dell’anima, quella sensibilità dell’anima puoi ignorarla a lungo, vivere senza accorgerti che hai perso la sensibilità dell’anima.

Essa non riguarda semplicemente il pensiero di Dio o della religione.

L’insensibilità dei sensi spirituali riguarda la compassione e la pietà, la vergogna e il rimorso, la fedeltà e la dedizione, la tenerezza e l’onore, la responsabilità propria e il dolore per l’altro.

È curioso: l’insensibilità non ti fa capire la compassione, non ti fa capire la pietà, non ti fa provare vergogna o rimorso per avere fatto una cosa brutta.

Sensi spirituali anestetizzati

I sensi spirituali anestetizzati confondono tutto e uno non sente, spiritualmente, cose del genere.

E la vecchiaia diventa la prima vittima di questa perdita di sensibilità.

In una società che esercita soprattutto la sensibilità per il godimento, non può che venir meno l’attenzione verso i fragili e prevalere la competizione dei vincenti. E così si perde la sensibilità.

Certo, la retorica dell’inclusione è la formula di rito di ogni discorso politicamente corretto.

Ma non porta una reale correzione nelle pratiche della convivenza normale: stenta a crescere una cultura della tenerezza sociale.

Lo spirito della fraternità umana — che mi è sembrato necessario rilanciare con forza — è come un abito dismesso, da ammirare, sì, ma… in un museo.

Si perde la sensibilità umana, si perdono questi movimenti dello spirito che ci fanno umani.

Nella vita reale possiamo osservare, con commossa gratitudine, tanti giovani capaci di onorare fino in fondo questa fraternità.

Ma esiste uno scarto colpevole, fra la testimonianza di questa linfa vitale della tenerezza sociale e il conformismo che impone alla giovinezza di raccontarsi in tutt’altro modo.

Cosa possiamo fare per colmare questo scarto? Dal racconto di Simeone e Anna, ma anche da altre storie bibliche dell’età anziana sensibile allo Spirito, viene un’indicazione.

In cosa consiste, concretamente, la rivelazione che accende la sensibilità di Simeone e di Anna? Nel riconoscere in un bambino, che loro non hanno generato e che vedono per la prima volta, il segno certo della visita di Dio.

Essi accettano di non essere protagonisti, ma solo testimoni.

E quando un individuo accetta di non essere protagonista, ma si coinvolge come testimone, la cosa va bene: quell’uomo o quella donna sta maturando bene.

Ma se ha sempre la voglia di essere protagonista non maturerà mai questo cammino verso la pienezza della vecchiaia.

La visita di Dio non si incarna nella loro vita, di quelli che vogliono essere protagonisti e mai testimoni, non li porta sulla scena come salvatori: Dio non prende carne nella loro generazione, ma nella generazione che deve venire.

Perdono lo spirito, la voglia di vivere con maturità e, come si dice usualmente, si vive con superficialità.

È la grande generazione dei superficiali, che non si permettono di sentire le cose con la sensibilità dello spirito.

Ma perché? In parte per pigrizia, e in parte perché già non possono: l’hanno persa.

Sensibilità
dello spirito

È brutto quando una civiltà perde la sensibilità dello spirito.

Invece, è bellissimo quando troviamo anziani come Simeone e Anna che conservano questa sensibilità dello spirito e sono capaci di capire le diverse situazioni.

Nessun risentimento e nessuna recriminazione, per questo, quando sono in questo stato di staticità.

Invece, grande commozione e consolazione quando i sensi spirituali sono ancora vivi.

La commozione e la consolazione di poter vedere e annunciare che la storia della loro generazione non è perduta o sprecata, proprio grazie a un evento che prende carne e si manifesta nella generazione che segue.

Questo è quello che sente un anziano quando i nipoti vanno a parlare con lui: si sente ravvivare. “Ah, la mia vita ancora è qui”.

È tanto importante andare dagli anziani, ascoltarli, parlare con loro, perché avviene questo scambio di civiltà, questo scambio di maturità fra giovani e anziani.

Così la civiltà va avanti in modo maturo.

Testimonianza umile

Solo la vecchiaia spirituale può dare questa testimonianza, umile e folgorante, rendendola autorevole ed esemplare per tutti.

La vecchiaia che ha coltivato la sensibilità dell’anima spegne ogni invidia tra le generazioni, ogni risentimento, ogni recriminazione per un avvento di Dio nella generazione che viene, che arriva insieme con il congedo della propria.

E questo è quello che succede a un anziano aperto con un giovane aperto: si congeda dalla vita ma consegnando la propria vita alla nuova generazione.

Questo è quel congedo di Simeone e Anna: “Adesso posso andare in pace”. La sensibilità spirituale dell’età anziana è in grado di abbattere la competizione e il conflitto fra le generazioni in modo credibile e definitivo.

Gli anziani, con questa sensibilità, sorpassano il conflitto, vanno oltre, vanno all’unità, non al conflitto.

Questo certamente è impossibile agli uomini, ma è possibile a Dio. E oggi ne abbiamo tanto bisogno, della sensibilità dello spirito, della maturità dello spirito; di anziani saggi, maturi nello spirito che ci diano una speranza per la vita!

(Udienza generale nell’Aula Paolo vi )